Dopo aver saputo – non da molti organi di stampa, per la verità –
della nuova fuga di immigrati dal Cie e dell’ennesima battaglia con le
forze dell’ordine, oggi ho preso il motorino e sono corso a Ponte
Galeria. L’ultima volta c’ero stato a fine luglio,
all’indomani di un episodio simile; la prossima occasione sarà in un
giorno anonimo, come questo, senza avvisare nessuno del mio arrivo e
senza nessun altro obiettivo che non sia quello di portare lì dentro, in
quel carcere a cielo aperto, un pezzetto di Stato. Portarlo a tutti,
intendo, perché le forze dell’ordine ne hanno bisogno almeno quanto i
detenuti: più ci vado, più me ne convinco, tornando a casa ogni volta
con il cuore pesantissimo e la testa piena di pensieri.
A Ponte Galeria, ma forse ve l’ho già raccontato,
c’è di tutto. C’è la badante moldava senza passaporto che è stata
spedita dentro da un prefetto di terra leghista, mentre magari a Roma,
non considerandola un pericolo sociale, avrebbero chiuso un occhio. C’è
la lavoratrice cinese che il console si rifiuta di riconoscere, con il
pretesto di non sapere da quale parte della Cina provenga, e che pensava
di aver toccato il fondo lavorando in un sottoscala, mentre la vita le
ha riservato una sorpresa ancora più amara. C’è il delinquente abituale
tunisino che ha alle spalle una lunga lista di reati contro la persona,
ma che nessuno – in due anni di carcere, poi altri tre, poi non so
quanti – si è preso la briga di identificare una volta per tutte e di
rimandare a casa, e quindi finisce al Cie appena lo trovano per strada
senza documenti, per poi riuscirne 6 mesi dopo e ricominciare tutto da
capo. “Qui dentro è uno zoo”, mi ha detto un operatore, prendendomi da
parte, e non c’è stato bisogno che aggiungesse nulla, perché l’idea che
ti viene, entrandoci, è proprio quella: tra atti di autolesionismo e
isterie collettive, anche un sano di mente perderebbe il senno; che sia
l’immigrato più pacifico o il poliziotto più ragionevole, tre mesi a
Ponte Galeria lo trasformerebbero in una persona peggiore.
Nonostante
l’umanità di molti funzionari, peraltro piuttosto critici con questa
politica dell’immigrazione, il Cie è un luogo diseducativo al massimo,
capace di essere nello stesso tempo il contrario dell’accoglienza e il
fallimento della sicurezza: in quel clima di alta tensione e di profonda
ingiustizia, infatti, le rivolte sono all’ordine del giorno e l’unico
obiettivo – dipende dai punti di vista, naturalmente – è quello di
fuggire o di impedire la fuga. Quello che era nato per essere un punto
di smistamento ragionevolmente rapido – il tempo di capire se una
persona fosse identificabile o meno – ora si è trasformato in una
prigione vera e propria, per l’inerzia (volontaria, si capisce) di molti
consolati e per l’incapacità del nostro governo di affrontare la
situazione. Ci vuole un ministro degli Esteri coraggioso, capace di
prendere di petto i Paesi non collaborativi e di minacciarli con le armi
che la diplomazia gli mette a disposizione. Poi ci vuole un ministro
dell’Interno meno ideologico, che concentri gli sforzi dei prefetti
sulle situazioni di reale pericolo sociale, che non alimenti emergenze
per motivi elettorali e che ogni tanto – anche a tempo perso – vada a
mettere piede in un Cie: se non vuol farlo per gli immigrati, lo faccia
almeno per quei ragazzi in divisa che manda lì, per 1300 euro al mese, a
prendere pietre in testa e a restituire in cambio manganellate.