Programma Educazione alla Pace presentato da Tindara Ignazzitto - Consulta per la Pace di Palermo

Programma di Educazione alla Pace - TPRF

lunedì 26 febbraio 2007

L'interazione delle culture è essa stessa cultura

di Gustavo Zagrebelsky *

Multiculturalismo è un termine comparso per la prima volta nel 1982, nella Carta dei Diritti delle Libertà del Canada. Parola nuova, quindi, ma che ormai ha investito il mondo occidentale nel suo complesso, sotto la pressione crescente dell'immigrazione da Paesi lontani.

Non è il pluralismo con il quale le società europee dall'inizio del secolo scorso hanno dovuto fare i conti e del quale, sia pure talora a caro prezzo, sono riuscite a venire a capo. Le società pluralistiche sono composte di parti che si riconoscono in un tutto come suoi elementi costitutivi. Un tutto che viene da una storia talora lontana o molto conflittuale, ma pur sempre comune. Le parti possono esprimere punti di vista diversi e avere interessi materiali concorrenziali, ma non antagonisti al punto da essere disposti al conflitto quando esso potrebbe avere esiti distruttivi per tutti. Nel contesto pluralista il quadro unitario di riferimento generale non è messo in discussione; la garanzia del pluralismo risiede nelle interdipendenze e nelle reciproche debolezze. Non così il multiculturalismo, in quanto le differenti culture si presentano come sistemi di valori e visioni del mondo chiusi, ciascuno in sè sufficiente a fornire il quadro etico completo e totalizzante dell'esistenza dei suoi membri. Potrebbe dirsi che il pluralismo tenda a un orizzonte di senso comune, mentre il multiculturalismo no.

Siamo quindi di fronte a una sfida cui proprio l'Europa è impreparata per ragioni di storia e di cultura. Nel secondo millennio sono stati perlopiù i popoli europei a occupare territori di altri continenti, abitati da popoli di altra cultura. Con questi non hanno cercato una convivenza multiculturale, ma semplicemente li hanno spazzati via o li hanno confinati nello spazio di qualche riserva, destinati a estinguersi.

L'impreparazione genera paura, la paura confusione delle idee e incertezza, e nell'incertezza trovano spazio razzismo e xenofobia. Quello della formazione di una società a culture plurime è un problema che sta alla base delle questioni del nostro tempo e di quelli a venire. Occorre riflettere per agire, sapendo che questa è una sfida al nostro vivere civile alla quale non è possibile sottrarsi.

Una sfida inevitabile

Culture e civiltà estranee, concetti così pregni di significato non meramente geografico: Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo, che l'Europa stessa ha contribuito a definire in due millenni e mezzo di geopolitiche di potenza, sono in movimento. È all'opera la forza più elementare, diffusa e capillare e perciò meno contenibile: quella della miseria e l'istinto di sopravvivenza.

Fino a pochi anni fa l'immigrazione verso l'Europa è stato un capitolo dei rapporti fra alcuni Stati e le loro ex colonie, oppure un effetto del miracolo economico di alcuni Stati. In passato le politiche statali governavano l'immigrazione nell'interesse delle economie nazionali, oggi i fattori degli spostamenti di popolazioni sono più profondi di quelli su cui la politica statale ha sovranità. Finché rimarrano attivi, le quote d'accesso e le limitate sanatorie degli irregolari saranno patetiche finzioni di una capacità regolatrice che è andata perduta.

L'emigrazione Sud-Nord ed Est-Ovest è un doloroso riequilibrio di profondi squilibri politici, economici, demografici e ambientali di dimensione mondiale: guerre, sfruttamento, povertà, fame e malattie, esplosione demografica, trasformazioni climatiche e degrado ambientale convergono nella disperazione di intere aree sub continentali alimentando il movimento verso i Paesi del ricco Occidente che offrono prospettive o miraggi di sopravvivenze. Se consideriamo che gran parte di quelle cause, per qualche aspetto, dipendono dall'aggresività delle società che abbiamo costruito, o dal difetto di adeguate politiche di solidarietà, possiamo in questo persino riconoscere una giustizia, un contrappasso o una domanda di risarcimento. La concreta disponibilità ad accogliere, può non essere proporzionale alle dimensioni della domanda, ma il "buttiamoli a mare" che talvolta esce dalla bocca di qualche xenofobo è un'ingiustizia su un'altra ingiustizia rivestita di ributtante amor di patria.

Alla ricerca di un confronto

Con i popoli che vengono da lontano e le loro culture dobbiamo perciò confrontarci per necessità e anche per giustizia. Il multiculturalismo è una sfida all'universalismo, un pilastro della concezione morale dell'Occidente. Il multiculturalismo invece pretende che le concezioni morali dipendano da determinate visioni del mondo, ognuna ugualmente valida dal proprio punto di vista. Per conseguenza, esso deve ammettere che possano esserci modi diversi di agire giusto e che ciò che è giusto per me che appartengo a una cultura possa essere assurdo per te che appartieni a un'altra.

Ma il multiculturalismo è anche una sfida all'individualismo. I diritti umani della tradizione occidentale, almeno dal Rinascimento in poi, sono principalmente i diritti degli individui, secondo la concezione liberale, o delle persone, secondo la concettuologia cattolica. I diritti delle comunità sono riconosciuti, ma vengono dopo, come espressione di diritti di chi volontariamente ne fa parte. Se nasce un dissidio, per l'Occidente è la libertà del singolo che prevale sulla compattezza del gruppo, non viceversa. Le appartenenze religiose, culturali e politiche devono quindi sempre essere volute o almeno accettate, non essere un dato della natura, della nascita o del destino.

Considerando i singoli non come individui, ma solo come parti di comunità, si rovescia questo rappporto fino a giustificare la prepotenza del gruppo sui suoi componenti. Si comprende che legge universale e primato dell'individuo possano essere due elementi caratteristici della nostra dimensione morale e possono essere accusati di giustificare politiche aggressive. La legge universalmente giusta chiederà di imporsi anche a chi non la riconosce come tale. Così, dietro la maschera, si scorge il volto della violenza imperialistica, perfino della guerra di civiltà distruttrice di cultura e di civiltà diverse. Inoltre, il primato dell'individuo, abbattendo le barriere culturali comunitarie da cui gli individui di gruppi più deboli sono pur sempre protetti, può creare quella superficie tutta liscia sulla quale scorre l'esercizio di un potere illimitato, azzera le differenze e omologa gli esseri umani in una informe umanità.

È tuttavia impossibile rinnegare l'universalismo e l'individualismo senza rinnegare la nostra stessa civiltà. Per adeguarci alla società multiculturale rinunceremmo noi per primi alla nostra cultura e, per non usare violenza agli altri, faremmo della nostra stessa cultura un uso suicida. Il dilemma del multiculturalismo allora deve forse formularsi in questi termini: se siamo condannati all'aggressività, ovvero se vi sia un modo per liberarci dal veleno annidato nel nostro modo di autorappresentarci come civiltà occidentale universalistica e individualistica.

Separati, integrati o interagenti?

Il banco di prova di questa terribile questione sono gli atteggiamenti di fronte alle comunità di altra cultura, atteggiamenti tutti riconducibili a queste tre idee: separazione, integrazione e interazione. Tutte e tre esprimono l'accettazione più o meno di buon grado di una società che ospita genti di culture e civiltà estranee, ma divergono profondamente sul modo di concepirle. Solo l'ultima, l'interazione, viene incontro all'esigenza di una convivenza al tempo stesso rispettosa dell'altro e non rinunciataria di fronte a sé stessa.

La separazione è una coesistenza senza convivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e debbano eessere identità spirituali chiuse e che le relazioni interculturali nascondano di per sé pericoli di contaminazione o contagio alla purezza dell'identità culturale. Popolazioni diverse vengano dunque, se proprio non si riesce a fermarle alla frontiera o ci è utile accoglierle in quote, ma stiano per conto loro. Questa posizione si è espressa nel motto "separati ma uguali" che per quasi 100 anni ha regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Usa. In teoria il pregiudizio separatista potrebbe condividersi perfettamente da entrambe le parti, autoctoni e migranti ed esser così un'ideologia simmetrica. In pratica tuttavia quando una parte (l'autoctona) è più forte dell'altra (la migrante), la separazione si butta in segregazione, cioè in violenza discriminatrice. Ma la discriminazione non ha bisogno di norme giuridiche, bastano le leggi dell'economia di mercato, le mentalità piccolo borghese a creare esclusioni, segregazioni, barriere invisibili, ma ferree, tra persone e luoghi.

L'integrazione mira alla società omogenea, in cui le differenze culturali si attenuino fino a scomparire. Il suo presupposto è che con la seduzione o con la forza le culture possano cambiarsi confluendo l'una nell'altra. L'integrazione non è ostile all'ingresso, ma rinvia la dinamica tra una cultura che integra e una che è integrata, cioè ad una asimmetria tra l'una, più vitale e l'altra, considerata meno vitale. L'integrazionismo è così fatalmente ideologia della cultura dominante e prima o poi manifesta la sua vera natura che non è l'integrazione, ma l'assimilazione. L'assimilazionismo, presupponendo la superiorità di una cultura sulle altre, è una versione mite di razzismo culturale che giustifica la pretesa di fagocitare culture recessive e così di cancellarle dalla faccia della terra o al più di lasciarle sopravvivere come folklore. Ma può tradursi anche in azione violenta. Se la cultura diversa non è integrabile, o si dice che così sia, (come accadde nella Germania nazista per ebrei o oggi per le comunità islamiche), la società omogenea si sente autorizzata a praticare politiche di segregazione e perfino di annientamento.

L'integrazionismo si traduce in atteggiamenti pratici opposti a quelli separatisti, esso mira alla distruzione delle comunità diverse e alla riduzione dei loro membri a soli individui sradicati per poterli così più facilmente assorbire. C'è però un paradosso o una contraddizione: integrazione è parola d'ordine delle comunità organiche culturalmente omogenee. Si può essere contro le comunità quando si parla d'altri e non quando si parla di sé? Mi riferisco alla legislazione francese: combatte il pericolo del cosiddetto mosaico culturale (cioè la presenza di tante comunità chiuse) ma finisce per proporre un quadro culturale a tinta unica.

L’interazione come formula di convivenza

Infine, l'interazione. Il postulato dell'interazione è la necessità delle culture di entrare in rapporto per definire se stesse rispetto alle altre e quindi difendersi dalla mera assimilazione. Ma al contempo è la disponibilità a costruire insieme e a imparare l'una dall'altra. In questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo gli uni dagli altri, c'è il contrario del separatismo e dell'integrazionismo. L'ethos dell'interazione è anti-fondamentalista, ma non relativista. Per avere interazione non basta la tolleranza: occorre che nessuno assuma il monopolio di verità possedute una volta per sempre. Una concezione non cristallizzata della cultura comporta soprattutto che diverse comunità, all'esterno siano aperte al confronto e al mutamento per reciproca confluenza, all'interno rispettino la soggettività dei propri membri e il diritto di decidere autonomamente di restarvi o di uscirne. Così l'interazione è l'unica risposta alla sfida del multiculturalismo conforme ai due pilastri della cultura occidentale: universalismo e individualismo. Universalismo non come imposizione generalizzata di una cultura egemone, ma come apertura al dialogo in libertà, verità e giustizia in vista della costruzione di una dimensione universale della vita in comune. Individualismo non come sradicamento, ma come priorità della coscienza degli esseri umani sulle appartenenze culturali di nascita e di destino. Così potremmo rimanere fedeli a noi stessi e scrollarci di dosso l'aggressività che spesso è addossata all'Occidente come una delle sue colpe maggiori.

Una simile prospettiva presuppone atteggiamenti di reciprocità amichevole che non possono affatto essere dati per scontati. Si tratta di riconoscimenti di rispetto gli uni verso gli altri. Noi, comunità di accoglienza, abbiamo le nostre difficoltà spesso frutto di pregiudizi sedimentati nel tempo e talora sfruttati politicamente. Ma anche le comunità che vengono da lontano hanno le loro difficoltà: per esempio quella che riguarda una parte dell'immigrazione islamica e che è stata definita come la "sindrome del perdente assoluto". Cioè consapevolezza di provenire da grandi civiltà, e quindi dell'orgoglio di appartenervi, che collimano con l'evidente mancato attuale riconoscimento del loro valore nell'ambiente di arrivo. Senza contare lo shock culturale permanente. Persone che si considerano "perdenti assoluti" costituiscono una bomba sociale.

Non rimane quindi che tentare di gettare ponti culturali, promuovere occasioni di conoscenza reciproca e di confronto. Prima di tutto da parte delle comunità di accoglienza, abbandonando l'atteggiamento di chi si considera dalla parte della civiltà e non sa riconoscere il valore altrui insieme ai propri limiti. Un lavoro a lungo termine difficile, ma ineludibile. L'interazione delle culture è essa stessa cultura, una metacultura ricca di tutti i contenuti della convivenza: rispetto reciproco, apertura, curiosità e attenzione per le diversità, spirito di uguaglianza e accoglienza, calda fratellanza nelle difficoltà della condizione umana.

Tutti i numerosi e complessi problemi che oggi si pongono alla politica nei suoi compiti regolativi di convivenze e di culture diverse si prestano a essere illuminati da questa concezione dell'essere cultura dell'occidente. È solo un punto di partenza; l'interazione tra culture, assunta come obiettivo da perseguire, non nasconde l'esistenza di "irrinunciabili" da porre sotto il dominio della legge comune. Irrinunciabili non perché lo sono per noi, ma perché attengono alla sfera dei diritti umani, in qualunque parte del mondo. Questi irrinunciabili quali sono? Direi anzitutto il divieto della violenza, la libertà nella vita comunitaria, il divieto di discriminazione tra uomo e donna. Il tutto però deve essere inevitabilmente oggetto di discussione e confronto e alla fine responsabilità della politica e non si presta a essere dedotto da una astratta formula di convivenza.


* Gustavo Zagrebelsky, uno dei massimi costituzionalisti italiani, docente universitario di Giustizia Costituzionale a Torino, nominato nel '95 giudice della Corte Costituzionale. A fine mandato nel 2004, dopo esserne stato presidente, è stato nominato presidente emerito della Corte Costituzionale e oggi è componente di comitati scientifici di numerose riviste.

Fonte: http://uninews.unicredit.it/it/articoli/page.php?id=6945