Scritto da Giuseppe Campisi
ad un anno di distanza da un altro articolo dal titolo Primo Marzo a Palermo: Il primo colpo di scopa scritto dallo stesso autore in occasione del 1° Marzo 2010
Giovedì 10 Marzo 2011 18:29
A un anno di distanza, guardare con una certa aria di disfatta un proprio articolo, un proprio pensiero, una propria emozione, riempie la mente e il cuore di un senso di sconfitta che è difficile da descrivere. Ripercorrere le righe scritte sull’entusiasmo, sulla gioia del momento, è faticoso. È tremendo. Ma ci si prova, non per esaltazione, ma per dovere di cronaca – si dice così, mi pare.
ad un anno di distanza da un altro articolo dal titolo Primo Marzo a Palermo: Il primo colpo di scopa scritto dallo stesso autore in occasione del 1° Marzo 2010
Giovedì 10 Marzo 2011 18:29
A un anno di distanza, guardare con una certa aria di disfatta un proprio articolo, un proprio pensiero, una propria emozione, riempie la mente e il cuore di un senso di sconfitta che è difficile da descrivere. Ripercorrere le righe scritte sull’entusiasmo, sulla gioia del momento, è faticoso. È tremendo. Ma ci si prova, non per esaltazione, ma per dovere di cronaca – si dice così, mi pare.
1 Marzo 2011, piove. Una decina di gradi in meno rispetto all’anno scorso, c’è freddo. Le famiglie con i bambini sono a casa per questo, e sono pochi i piccoli sorrisi che riempiono il corteo di quella che ai miei occhi appare sempre come la splendida luce di un futuro sereno, felice, privo d’odio. Senza ingiustizie e senza cortei che rivendichino giustizia. Senza striscioni recanti foto di giovani uomini costretti alla morte dai soprusi di altri uomini, senza ragione e senz’animo, senza storia alle spalle, senza futuro negli occhi. C’è sempre forza nella voce di chi parla dal microfono, sempre quella voglia di rivalsa, quella rabbia, quel senso di liberazione e quella volontà di riappropriarsi della propria dignità ferita che si respirano a pieno anche sotto la pioggia, nel freddo, fra l’indifferenza della gente che fa shopping, gli sbuffi degli automobilisti imbottigliati nel traffico ed il deambulare disinteressato delle forze dell’ordine ad una ventina di metri dalla testa del corteo. La volontà c’era ancora questo Primo Marzo, non ha abbandonato il viso di chi s’impegna per vedere qualcosa cambiare, che s’incazza perché non cambia mai nulla, che non si arrende e che s’impegna più forte di prima, sotto la spinta dell’emozione, della disperazione a volte. La volontà c’era, come un anno fa’. E come un anno fa’ «era alta, bianca, robusta, vecchia, innocente, esperta, giovane, magra, bassa, nera. Era autoctona, ma era immigrata». E, anche quest’anno, la volontà si è espressa negli eventi più diversi, che hanno farcito i giorni di attesa per la manifestazione dell’1, così come le ore immediatamente successive ad essa.
L’assembramento delle 17 presso Porta Felice tarda di alcuni minuti, ma, completato, è tutto pronto per partire. È dal mare che parte la marcia di un’umanità soppressa dalle leggi-fantoccio, dallo sfruttamento agrario, dalle violenze dei più forti, dalle istigazioni al suicidio, dalle truffe di Stato, dal terrore orchestrato ad hoc dai mass media. Il mare il punto di partenza della lotta per i diritti negati di chi scopre il proprio inferno nel paradiso che ha cercato aldilà della guerra, della fame, della malattia, nell’eden che ha raggiunto piangendo e pregando dentro la rabbia delle onde, ammassato con altri in barcacce di cartapesta che nessuno dei Paesi d’Occidente si è arrischiato di salvare e di raccogliere dal fragore delle tempeste assassine del Mare Nostrum, il paradiso finalmente toccato attraverso le urla di dolore dei bambini che diventano uomini in viaggio, rompendosi le ossa dentro i fondi nascosti dei tir provenienti dalla Grecia e dai Balcani, bevendo la propria urina per sopravvivere al vuoto di un’aria che risucchiano in venti, distesi e intorpiditi in uno spazio alto 30 cm, per non destare sospetti ai controlli doganali. Dal mare parte anche l’urlo tremendo di chi non ha mai superato la traversata, di chi ha visto colare a picco la propria speranza, e insieme ad essa la propria vita, di chi è stato rispedito indietro dai fari intimidatori dei guardacoste, di chi ha fermato la propria corsa contro i proiettili sparati dalle barche italiane dei dittatori nordafricani tanto cari alla mamma Europa, o nei buchi neri dei gulag di quella Libia che i capi del mondo hanno considerato degna della presidenza della Commissione O.N.U. per i Diritti Umani.
Così, dal mare, si parte. In testa il furgoncino di Ubuntu, che spande nell’aria aperta di una Palermo assopita le voci impresse in un microfono davvero troppo piccolo per poter contenere l’energia vitale da loro liberata. Dietro, una bandiera del Marocco anticipa alla vista dei passanti il viso che da qualche tempo racconta la vergogna di ogni palermitano, delle Istituzioni da sempre assenti, delle Forze dell’Ordine non rare ad abusi, dei mezzi di comunicazione sordi e muti, di ogni cittadino di questa città. Anche la mia vergogna, che blocca le parole sui polpastrelli e non mi fa scrivere. È il viso di Nourredine Adnane, un ragazzo di 27 anni, un mio, un nostro concittadino mi piacerebbe dire, ucciso dalla città, dal suo governo, dalla sua amministrazione, dal suo popolo. Ucciso dal suo Stato, da quello che aveva scelto essere il suo Stato, il Paese dove vedere con gli occhi il futuro – per Nourredine il futuro si chiama Khadija, ha due anni e vive in Marocco – e portare sulle spalle l’incantevole peso della propria storia. Questo in un Paese senza storia e privo di ogni futuro. Sull’onda emotiva della morte di Nourredine, del suo corpo bruciato, a tenere lo striscione del Forum Antirazzista – con la foto del giovane – , ci sono i suoi compagni nordafricani, che espettorano la loro collera sui palazzi di un centro storico che ha già dimenticato il turbamento per un suicidio cercato, che mostrano il pane, la vera ragione, il motivo, il pane che è vita, che è dignità. Dietro loro il popolo delle lotte, le persone che riconosci sempre per la strada quando si reclama un diritto, si chiede giustizia, libertà, rispetto. «Un corteo sociale non è una festa, ad un corteo non c’è mai troppa o troppo poca gente. Ad un corteo c’è sempre chi ci deve essere» scrivevo un anno addietro. Ne sono ancora convinto. Convinto, si, ma perplesso. Confuso perché ancora non capisco cosa serva alla gente per svegliarsi, per rendersi conto che si è davvero giunti alla situazione del non ritorno, che la democrazia in questo Paese è un miraggio, che continuiamo a permettere che i più “giuridicamente” – perché in un sistema fondato su una legittimità legale-razionale si ragiona così – deboli siano continuamente schiacciati, perché permettiamo di essere noi stessi schiacciati, pronti anche noi a far valere la nostra forza, a scaricare il nostro odio sugli ultimi, rispondendo come automi agl’input dell’autorità. Un esodo di proporzioni bibliche, 300mila profughi, 10mila al giorno, li mandiamo in Europa, ci invadono, vogliono rubarci il lavoro, se ne stiano a casa loro, Gheddafi ci garantiva dall’immigrazione, viva Gheddafi, viva Gheddafi! Questi i messaggi che – quasi impercettibilmente – attraversano lo stivale, questo il terrore del diverso che si propaga giorno per giorno, che spinge gli immigrati stessi a non scioperare, ad andare a lavoro temendo le ripercussioni da parte dei padroni, temendo l’arrivo di persone disposte a farsi sfruttare per la metà del denaro per il quale si fanno sfruttare essi stessi.
Nourredine è la torcia umana di Palermo, come Jan Palach a Praga, come Mohammed al-Bouazizi a Tunisi. Tocca a noi adesso fare in modo che rassomigli all’uno o all’altro, tocca a noi cercare la strada da seguire per cambiare. Tocca a noi trovare la nostra thaura, la nostra rivoluzione. Altrimenti toccherà sempre a noi – e ne avremo la responsabilità – scegliere di aspettare e sopportare, attendere anche un tempo infinito, sacrificando anime, corpi, vite alla crudeltà di chi ci comanda, e un giorno – quasi senza rendercene conto – qualcosa cambierà. Un giorno.
إن شاء الله
Fonte: Il Carrettino delle Idee