La crisi economica, resa più devastante da una
manovra finanziaria all’insegna di una scandalosa “macelleria sociale”, è quel
che in questi giorni allarma, a giusta ragione, i cittadini italiani.
Sicché la notizia che sto per commentare, per quanto grave, rischia di
passare inosservata. Eppure è figlia della medesima politica, in sostanza
condivisa con l’opposizione di sua maestà: crudele verso le persone comuni,
soprattutto le più deboli; condiscendente e magnanima e verso i ricchi e i
potenti.
Il 14 luglio scorso la Camera ha approvato il decreto-legge che, fra l’altro, prevede l’espulsione immediata degli immigrati “irregolari” -perfino dei comunitari, per motivi di ordine pubblico- e prolunga fino a 18 mesi la detenzione nei cie (Centri d’identificazione ed espulsione). In sostanza, persone che non hanno commesso alcun reato, che si sono limitate a esercitare il diritto di fuga, si troveranno a languire per un tempo lunghissimo, e senza alcuna garanzia dei diritti fondamentali, in quelli che sono divenuti autentici lager.
Uso il termine consapevolmente e non come figura retorica. Infatti, il sistema di detenzione amministrativa, inaugurato dalla legge Turco-Napolitano, è oggi divenuto talmente arbitrario, svincolato come è dalle regole di diritto più elementari, che è appropriato parlare di lager: lo status proprio dei lager nazisti –non parlo della loro finalità- era di essere sottratti ai codici e ai comuni procedimenti giudiziari. I cie sono, per l’appunto, strutture tipiche di uno stato di eccezione. Che oggi è dichiarato apertamente e praticato fattualmente, a tal punto che l’ingresso nei lager è interdetto alle associazioni, ai giornalisti, perfino ad avvocati e parlamentari.
Sfruttando il clima di allarme sociale, creato ad arte in occasione dell’arrivo di qualche decina di migliaia di migranti e rifugiati, a febbraio scorso il consiglio dei ministri ha proclamato lo stato di emergenza “umanitaria” sul territorio nazionale e perfino nei paesi del Nord Africa: un “atto dovuto”, anzi “una scelta corretta”, secondo il pd, cioè l’opposizione di sua maestà.
Poi, tendopoli circondate da filo spinato o strutture fatiscenti approntate in fretta e furia sono state trasformate in nuove fattispecie di lager, prive di qualsiasi regolamentazione giuridica. Così la tendopoli di Manduria (Taranto) è diventata, da un giorno all’altro, un inedito cai (Centro di accoglienza e identificazione). cai era stata denominata la stessa ex caserma Andolfato di S. Maria Capua Vetere (Caserta), poi ri-trasformata, nel giro di un giorno, in un più classico cie, infine chiuso. E un classico cie è diventato, grazie a un’ordinanza, il centro di accoglienza di Palazzo San Gervasio (Potenza).
Benché incompleto, l’elenco permette di cogliere il senso di queste rapide metamorfosi, per lo più al di fuori della legge, che hanno la finalità di affidare alla sfera dell’arbitrio assoluto –al limite del sequestro di persona- la già arbitraria detenzione di persone innocenti quanto indesiderate: eppure utili come capri espiatori e cavie per sperimentare uno stato di polizia sui generis.
Protetti come sono da fitte barriere di gabbie e reticolati, i lager –che siano di vecchia o di nuova generazione e comunque si chiamino- sono anche utili ad alimentare nell’opinione pubblica l’immaginario paranoide che induce a percepire il migrante o il rifugiato come nemico o comunque individuo pericoloso.
Quanto ai reclusi, provate a mettervi nei panni di un giovane tunisino, per esempio. Ha partecipato alla rivoluzione contro la dittatura, in cui per la prima volta si è sentito soggetto, poi ha provato a sperimentare la libertà conquistata per raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo a cercare fortuna. Dopo una traversata da incubo, in cui ha rischiato la vita, si trova intrappolato in un incubo di sbarre, ridotto a numero, spersonalizzato, espropriato della libertà e della sua stessa sorte. In quest’incubo, il cibo è insufficiente, le condizioni igieniche e logistiche del tutto precarie. Gli si proibisce di parlare con gli avvocati, di telefonare ai suoi, perfino di tornare in patria subito. Se protesta insieme ai compagni di sventura, ne ricava pestaggi da parte delle forze dell’ordine. Potrete allora capire perché mai rivolte, scioperi della fame, tentativi di fuga disperati, atti di autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio siano la routine quotidiana dei lager italiani.
Una nota finale. Paradossalmente, questa negazione di ogni principio umanitario s’intreccia con la sfera dell’umanitario. A gestire un certo numero di cie è, infatti, il Consorzio Connecting People, che già nel nome si ammanta della retorica umanitaria, “multiculturalista”, perfino antirazzista. Connecting People è legato e finanziato dal Consorzio “Gino Mattarelli” (cgm). E questo, a sua volta, è partner e socio fondatore della Banca Etica. Si potrebbe allora concludere con uno slogan: “Come sono etici i lager italiani!”.
Annamaria Rivera
(16 luglio 2011)
Il 14 luglio scorso la Camera ha approvato il decreto-legge che, fra l’altro, prevede l’espulsione immediata degli immigrati “irregolari” -perfino dei comunitari, per motivi di ordine pubblico- e prolunga fino a 18 mesi la detenzione nei cie (Centri d’identificazione ed espulsione). In sostanza, persone che non hanno commesso alcun reato, che si sono limitate a esercitare il diritto di fuga, si troveranno a languire per un tempo lunghissimo, e senza alcuna garanzia dei diritti fondamentali, in quelli che sono divenuti autentici lager.
Uso il termine consapevolmente e non come figura retorica. Infatti, il sistema di detenzione amministrativa, inaugurato dalla legge Turco-Napolitano, è oggi divenuto talmente arbitrario, svincolato come è dalle regole di diritto più elementari, che è appropriato parlare di lager: lo status proprio dei lager nazisti –non parlo della loro finalità- era di essere sottratti ai codici e ai comuni procedimenti giudiziari. I cie sono, per l’appunto, strutture tipiche di uno stato di eccezione. Che oggi è dichiarato apertamente e praticato fattualmente, a tal punto che l’ingresso nei lager è interdetto alle associazioni, ai giornalisti, perfino ad avvocati e parlamentari.
Sfruttando il clima di allarme sociale, creato ad arte in occasione dell’arrivo di qualche decina di migliaia di migranti e rifugiati, a febbraio scorso il consiglio dei ministri ha proclamato lo stato di emergenza “umanitaria” sul territorio nazionale e perfino nei paesi del Nord Africa: un “atto dovuto”, anzi “una scelta corretta”, secondo il pd, cioè l’opposizione di sua maestà.
Poi, tendopoli circondate da filo spinato o strutture fatiscenti approntate in fretta e furia sono state trasformate in nuove fattispecie di lager, prive di qualsiasi regolamentazione giuridica. Così la tendopoli di Manduria (Taranto) è diventata, da un giorno all’altro, un inedito cai (Centro di accoglienza e identificazione). cai era stata denominata la stessa ex caserma Andolfato di S. Maria Capua Vetere (Caserta), poi ri-trasformata, nel giro di un giorno, in un più classico cie, infine chiuso. E un classico cie è diventato, grazie a un’ordinanza, il centro di accoglienza di Palazzo San Gervasio (Potenza).
Benché incompleto, l’elenco permette di cogliere il senso di queste rapide metamorfosi, per lo più al di fuori della legge, che hanno la finalità di affidare alla sfera dell’arbitrio assoluto –al limite del sequestro di persona- la già arbitraria detenzione di persone innocenti quanto indesiderate: eppure utili come capri espiatori e cavie per sperimentare uno stato di polizia sui generis.
Protetti come sono da fitte barriere di gabbie e reticolati, i lager –che siano di vecchia o di nuova generazione e comunque si chiamino- sono anche utili ad alimentare nell’opinione pubblica l’immaginario paranoide che induce a percepire il migrante o il rifugiato come nemico o comunque individuo pericoloso.
Quanto ai reclusi, provate a mettervi nei panni di un giovane tunisino, per esempio. Ha partecipato alla rivoluzione contro la dittatura, in cui per la prima volta si è sentito soggetto, poi ha provato a sperimentare la libertà conquistata per raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo a cercare fortuna. Dopo una traversata da incubo, in cui ha rischiato la vita, si trova intrappolato in un incubo di sbarre, ridotto a numero, spersonalizzato, espropriato della libertà e della sua stessa sorte. In quest’incubo, il cibo è insufficiente, le condizioni igieniche e logistiche del tutto precarie. Gli si proibisce di parlare con gli avvocati, di telefonare ai suoi, perfino di tornare in patria subito. Se protesta insieme ai compagni di sventura, ne ricava pestaggi da parte delle forze dell’ordine. Potrete allora capire perché mai rivolte, scioperi della fame, tentativi di fuga disperati, atti di autolesionismo, suicidi e tentativi di suicidio siano la routine quotidiana dei lager italiani.
Una nota finale. Paradossalmente, questa negazione di ogni principio umanitario s’intreccia con la sfera dell’umanitario. A gestire un certo numero di cie è, infatti, il Consorzio Connecting People, che già nel nome si ammanta della retorica umanitaria, “multiculturalista”, perfino antirazzista. Connecting People è legato e finanziato dal Consorzio “Gino Mattarelli” (cgm). E questo, a sua volta, è partner e socio fondatore della Banca Etica. Si potrebbe allora concludere con uno slogan: “Come sono etici i lager italiani!”.
Annamaria Rivera
(16 luglio 2011)