Nei paesi industrializzati si trasformano i lavori e i lavoratori, assumendo in modo sempre più dinamico nuove forme e identità, che non necessariamente però corrispondono a condizioni economiche e di vita migliori.
Quello che cresce, in particolare, è il lavoro autonomo legato all’economia della conoscenza, alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma anche alla continua esternalizzazione dei servizi. È il cosiddetto “terziario avanzato di seconda generazione”, se con “prima generazione” si intende il lavoro delle professioni, degli albi e degli ordini.
Dal traduttore al webmaster, dal formatore all’organizzatore di eventi, dal giornalista al consulente informatico, sono tutti lavori necessariamente flessibili e ad alto contenuto intellettuale e creativo. Tutti parte, comunque, della grande famiglia dei freelance, che abbiamo la partita Iva o un contratto di collaborazione a progetto.
Si tratta di una categoria che le organizzazioni sindacali ancora fanno fatica a rappresentare, se non addirittura a comprendere nella rapida, costante evoluzione. D’altra parte, spesso si tratta di lavori che solo formalmente risultano autonomi e flessibili, perché di fatto sono dipendenti camuffati, pagati poco e con contratti precari. Si stima che questi ultimi, tra contratti a tempo determinato, cocopro e partite Iva, oggi siano circa 4 milioni in Italia.
In occasione del Primo Maggio, il linguista Noam Chomsky ha scritto sul sito Truthout un editoriale dal titolo L’attacco internazionale al lavoro: “Il termine “precarietà”, coniato dagli attivisti italiani, all’inizio si riferiva alla precarietà esistenziale dei lavoratori ai margini, come le donne, i giovani e gli immigrati”. In seguito, secondo Chomsky, l’applicazione del termine si è estesa a una condizione di precarietà crescente per la base della forza lavoro, che subisce progressivamente la desindcalizzazione, la flessibilizzazione e la deregolamentazione.
In ogni caso, la novità è che l’esercito dei nuovi professionisti comincia a sentire il bisogno di muoversi per “rivendicare collettivamente ” – tanto per usare un’espressione fordista – tutele e garanzie, quelle contrattuali così come quelle previdenziali, ad esempio. Sono per lo più giovani, molto qualificati ma con poca esperienza e con pochi contatti, anzi spesso isolati e in competizione tra loro, che però oggi sentono il bisogno – detto in chiave post-fordista – di creare coalizioni, di attivare reti.
Nascono così le prime associazioni e organizzazioni. Un buon esempio in Italia è Acta, Associazione consulenti terziario avanzato, che proprio oggi a Roma presenta il Manifesto. “È un nuovo programma per il riconoscimento del valore del lavoro professionale in Italia – si legge nella presentazione – e intende incentivare e rinforzare la coalizione tra chi non gode oggi di un’adeguata rappresentanza sociale”.
L’esperienza di Acta e delle altre associazioni nate in paesi ad alta intensità di lavoro autonomo – come Stati Uniti e Regno Unito – è illustrata nel saggio appena uscito “Vita da freelance” di Sergio Bologna e Dario Banfi, con una ben documentata analisi delle dinamiche che queste professioni stanno seguendo.
Dal testo emerge con chiarezza anche il ritardo della giurisprudenza italiana. “È necessario portare questi lavoratori nella maglie del diritto del lavoro, sottraendoli alla pura esposizione verso il diritto commerciale. I freelance non sono merce, sono sono imprenditori o capitalisti… sono lavoratori”, scrivono Bologna e Banfi. Dunque, aggiungiamo, hanno diritto a condizioni di lavoro dignitoso, per come lo intendono anche le norme internazionali.
In effetti, per quanto inedite nella forma, le condizioni di lavoro autonomo avanzato, specialmente quando questo è frutto di esternalizzazione, non sembrano poi tanto innovative nella sostanza.
“Nel cosiddetto lavoro a domicilio questo sfruttamento diventa più spudorato che nella manifattura, perché la capacità di resistenza degli operai diminuisce quando sono dispersi (…) perché cresce la irregolarità dell’occupazione e perché la concorrenza fra operai arriva di necessità al massimo”. Lo scriveva nel 1867 Karl Marx, nel libro I del Capitale.
Fonte: Lavoro Dignitoso di Vittorio Longhi