respingimenti : la resistibile ascesa di una parola di regime
pina piccolo
Impugnata a mo’ di randello dal ministro degli interni Maroni, dal 6 maggio 2009, la poco elegante parola respingimenti
si è imposta con prepotenza nel lessico italiano. In molti si augurano
che non prenda piede radicandosi nel vocabolario e nella Weltaschaaung
italiana, come purtroppo è invece avvenuto per altri termini relativi
al fenomeno migrazione, come l’apparentemente spiritoso ma denso di
eurocentrismo “vúcumprà”, l’asettico-sociologico flussi migratori, o il grondante di “eau de questura” permesso di soggiorno.
Respingimenti: in origine parola dalla forte connotazione
burocratica, evoca file di impiegati operosi alle prese con pile di
pratiche su cui appongono dei timbri. Tra aloni d’inchiostro a stento si
decifra su alcune la parola “ammesso” e su altre “respinto”, mentre in
alto, sopra uno scaffale, un faldone polveroso reca la dicitura
“Respingimenti” - termine astratto che vorrebbe r/accogliere l’intera
categoria oscurando le ben più concrete singole vite dei respinti.
Respinti, parola che a sua volta ha un non so ché di scolastico, fa
pensare ad una bocciatura, a una lunga fila di compagni di classe poco
studiosi che abbiamo perso di vista l’anno successivo alla loro
condanna, e che oggi con dicitura forse ancor meno elegante e
decisamente più pragmatica, presa di peso dall’americano “loser”,
verrebbero definiti “perdenti”. Un passaggio semantico in linea con una
visione del mondo da periferia dell’impero agli albori del XXI secolo
ormai secoli lontana dal “ciclo dei vinti” di verghiana memoria, da
agognati riscatti del proletariato o da reminiscenze evangeliche sugli
ultimi che saranno i primi.
In epoca pre-maroniana, la parola “respingimenti” poteva riportare
alla mente una qualche poesia neo-classica/romanticheggiante, forse un
epigono di Monti o di Foscolo che verseggiava sui “respingimenti”
sofferti da uno spasimante poco fortunato il cui ardore fosse stato
rifiutato/respinto da una caparbia amata circondata da crinoline. Certo
non poteva fare venire in mente barconi di africani disperati rimandati
da gendarmi europei a soffrire le pene dell'inferno in paesi poco
ossevanti dei diritti umani come la Libia.
Ma invece no, dal 6 maggio, il vocabolo è irrotto con prepotenza nel
territorio semantico di quella “push/pull” teoria della migrazione del
geografo inglese Ernest Ravenstein che utilizzò dati demografici
dell’Inghilterra e del Galles per elaborare la sua teoria esposta nel
libro “Laws of Migration” (1889). Inizialmente la teoria si riferiva
alle migrazioni interne, ed è stata rielaborata in epoca più recente da
Everett S. Lee (1966) in contesto di migrazioni internazionali. La
teoria ipotizzava che la migrazione fosse governata da un meccanismo di
“push-pull” cioè dei fattori che “spingevano” (push) il migrante via
dalla terra d’origine e altri che lo “attraevano” (pull) verso un’altra
destinazione. Una teoria che, nonostante i limiti, potrebbe fornire
degli elementi per capire quei fattori che spingono via dai più
diversi paesi del Sud del mondo -- miseria, dittature, guerre, torture –
e quelli che invece attraggono verso i centri ricchi del mondo –
migliori prospettive economiche, relativa protezione da regimi
autoritari, assenza di guerre. Grazie al contributo berlusconiano siamo
adesso pionieri nella pratica del push-pull-push back, un’innovazione
che è in chiara violazione della Convenzione di Ginevra sul diritto
all’asilo e della quale c’è poco da andare fieri.
È interessante notare la difficoltà linguistica suscitata da questa
parola nella traduzione in articoli della stampa internazionale. Il
termine “respingimento” viene tradotto in francesce “refoule” che
richiama di più “represso” (cioè quello che, secondo il trattato di
Ginevra, non bisognerebbe fare a potenziali rifugiati), mentre invece
nei giornali di lingua inglese utilizzano la parola “deportation”, anche
se gli Stati Uniti non sono esenti da simili politiche con riguardo
agli haitiani i cui barconi sono ormai da decenni tranquillamente
“returned” o “pushed back” da dove sono venuti (anche in epoca
clintoniana o obamiana).
Sono ormai alcuni anni che la logica del push-pull non fa presa
sull’ethos sviluppatesi nel periodo craxiano per una grande fetta della
popolazione italiana che in quello specchio deformante si riconosce. In
preda ad amnesia storica, milioni di italiani adulti hanno dimenticato
che milioni di loro connazionali, non delinquenti, a cavallo tra
ottocento e novecento hanno lasciato l’Italia per le Americhe (spinti o
da necessità economica o dallo stato autoritario, basta ricordare le
migliaia di anarchici che sono andati in esilio o in America o in altre
parti del mondo), che durante il periodo fascista un gran numero di
fuoriusciti (un chiaro richiamo al fattore “push”) si era rifugiato in
paesi più ospitali d’Europa o d’America, e che dagli anni 50 molti
hanno cercato fortuna in altri paesi d’Europa, chi per motivi economici,
chi per poter studiare o fare passi avanti nella carriera non
condizionati dai clientelismi che contraddistinguono la situazione
italiana (seppur non riconosciuta come tale, la fuga di cervelli è
anch’essa una forma di migrazione che segue meccanismi di push-pull). Lo
specchio deformante, che ha radici nel periodo craxiano ma che si è
insediato con il massimo della volgarità in epoca berlusconiana, rimanda
l’immagine di un’Italia come paese in cui si sta bene (a parte qualche
sacca di degrado principalmente nel sud) che attirerebbe orde di
malintenzionati attratti dal pugno poco fermo dei politici italiani e
dal buocuore e disponibilità degli Italiani “buona gente”. Da qui a
quello che è successo il 6 maggio il passo è breve. In quella data,
infatti, la parola si sposta da polverosi scaffali e crinoline
ottocentesche a barconi nel mediterraneo, gli stessi che solo qualche
settimana prima brulicanti di umanità varia erano stati oggetto di
scaricabarilato tra Malta e Italia, mentre disidradati centinaia di
africani dalle varie tonalità di pelle aspettavano in balia del fato e
delle onde. Nel trasbordo da una nave all’altra una di loro, la
diciottenne Esceth Ekos, era scivolata tra i flutti e annegata. Il corpo
recuperato era stato sistemato in un telo a poppa, una specie di Nike
inversa simbolo della depredazione e sconfitta di un’intero continente e
denuncia delle responsabilità dell’occidente. Vista da questa
prospettiva, la parola sembra essere entrata in un territorio a cui non
appartiene.
La nuova accezione della parola “respingimenti” è approdata nel
lessico italiano dunque solo qualche settimana dopo l’episodio di cui
sopra, quando con mossa fulminea, il tiranno che spadroneggia su
un’altra isola del mediterraneo, dove con cadenza settimanale dall’aria
fa sbarcare a spese dei contribuenti giullari e odalische, forte
dell’entrata in vigore del Trattato Italia-Libia, ha decretato la fine
dei tentennamenti riguardo gli sbarchi di africani sulle coste italiane.
Ai mesi di martellamenti ideologici ad opera della stampa e delle tv a
lui asservite e alla discussione dei decreti e disegni di legge come il
pacchetto di sicurezza o le ronde, è seguita una escalation di episodi
di crudeltà da parte dell’italica gente che va dagli incendi appiccati
ai campi Rom, all’indifferenza dei bagnanti per le ragazzine Rom
annegate, all’uccisione di Abba, alla strage di africani a
Castelvolturno, all’aggressione da parte della polizia di Immanuel Bonsu
a Parma, al rogo del migrante indiano nella stazione di Terni e
innumerevoli altri episodi ad ogni latitudine del paese. Una volta
appurato il “consenso” di larga parte della popolazione, il governo si è
sentito libero di fare quest’ulteriore passo avanti, nonostante le
critiche dell’ONU, degli organismi per i diritti umani e a livello
internazionale. E da qui a “respingimenti” di altri elementi scomodi,
che magari non arrivano in barconi ma sono già residenti sull’italico
suolo il passo potrebbe essere breve. Invece che respingimenti verso la
Libia, si potrebbe ritornare a respingimenti verso il confino o alle
isole di mussoliniana memoria.
In inglese l’assonanza tra le parole “words” e “worlds” rende ancora
più evocativo il concetto “words create worlds” (le parole creano
mondi), un’idea che trova universale risonanza nell’importanza
attribuita alle parole e ai proverbi nella cultura africana, nella
bibbia (“La morte e la Vita stanno nel potere della lingua”, è scritto
nel Libro dei Proverbi), e, in un contesto “moderno” nel concetto
lacaniano di linguaggio non come mero strumento per la rappresentazione
della realtà ma come elemento di fondo della sua strutturazione. Da
questo punto di vista adottare e accogliere un termine come
respingimenti significa quindi partire dal linguaggio per preparare il
terreno (mondo) in cui sia normale “re-spingere” altre persone verso
destini poco felici assolvendoci da ogni responsabilità per quello che
li attende sull’altra sponda.
Il rischio è che se non si pone freno e non si fa emergere un largo
dissenso verso il dilagare di questo spirito di violenta chiusura, un
termine come “respingimenti’ si sedimenterà nel lessico e nella
coscienza italiana, rendendolo normale come un altro termine a cui ormai
ci siamo assuefatti: i cosidetti “danni collaterali”. O storicamente a
un altro termine che l’italiano ha regalato al lessico modiale: la
parola ghetto. Il fatto che le vittime civili abbiano ormai cambiato
nome per essere avvolte in in sudario di malevolo tecnicismo, potrebbe
suggerire che accettando la parola “respingimenti” oltre a decretare
ulteriori malanni e torture a migliaia di persone già provate e
represse, ci abitueremo a mascherare con tali neologismi la vocazione a
infierire sui più deboli, rassegnandoci all’inaugurazione di un’altra
stagione di tolleranza verso la repressione.
1Da un’esauriente esposizione pubblicata in Melting Pot Europa del 13 maggio 2009, http://www.meltingpot.org/articolo14502.html: Il “”principio del non respingimento (non refoulement) è uno dei principi cardine del diritto internazionale del rifugiato e può essere sintetizzato come il divieto che il richiedente asilo o il rifugiato sia respinto verso luoghi ove la sua libertà e la sua vita sarebbero minacciati. Molteplici sono gli strumenti di diritto internazionale che codificano tale principio, in primis la Convenzione di Ginevra relativa allo Status dei Rifugiati del 1951 che all’art. 33 proibisce che un il richiedente asilo o il rifugiato sia espulso o respinto in alcun modo “ […] verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.” (4) Lo stesso principio è riaffermato sia direttamente che indirettamente da numerose Convenzioni Internazionali in difesa dei diritti umani, sia a livello universale(5) che a livello regionale.”