Programma Educazione alla Pace presentato da Tindara Ignazzitto - Consulta per la Pace di Palermo

Programma di Educazione alla Pace - TPRF

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giovedì 22 dicembre 2011

Il significato di extracomunitario di Lubna Ammoune


RACCONTI

Mi è stato letto questo racconto e penso sia buona cosa diffondere il messaggio che vi è contenuto. Può aiutare a volgere lo sguardo verso altre direzioni e invitarci a dare un altro peso e un altro significato alle parole che vengono pronunciate in modo sbrigativo per il loro apparente senso dispregiativo nell’immaginario comune.

IL FUTURO DEI MIEI
Un bellissimo racconto, un dialogo fra zio e nipote su una carretta del mare, che può aiutarci a dare un significato diverso alle parole extracomunitario, immigrato, clandestino. Alessandro Ghebreigziabiher

Su una nave. In mare. Da qualche parte.
«Zio Amadou?».
«Sì…»
«Zio?».
«Sì?».
«Mi senti?».
«Sì che ti sento…».
«Ma non mi guardi.. .».
L’uomo si volta ed accontenta il nipote. «Stai tranquillo, gli dice inarcando il sopracciglio sinistro, le mie orecchie funzionano bene anche senza l’aiuto degli occhi…». E si volta a studiare le onde.
Il ragazzino, poco più di sei anni, lo osserva dubbioso, tuttavia si fida e riattacca: «Zio… Tu conosci bene l’Italiano?» .
«Certo, laggiù ci sono già stato due volte».
«Conosci proprio tutte le parole?»
«Sicuro,Ousmane».
Il nipote si guarda in giro, come se avesse timore di essere udito da altri, e arriva al sodo: «Cosa vuol dire extracomunitario?».
L’uomo, alto e magro, ha trent’anni, ma la barba grigia gliene aggiunge almeno una decina. Non appena coglie l’ultima parola del bambino, si gira di scatto e fissa i propri occhi nei suoi.
Trascorre un breve istante che tra i due sa di eternità, possibile solo in un viaggio in cui è in gioco la vita.
«Extracomunitario, dici?, ripete abbozzando un sorriso sincero, extracomunitario è una bellissima parola. I comunitari sono quelli che vivono tutti in una stessa comunità, come gli italiani, e l’extracomunitario è colui che ne entra a farne parte arrivando da lontano. Non appena i comunitari lo vedono capiscono subito che ha qualcosa che loro non hanno, qualcosa che non hanno mai visto, un extra, cioè qualcosa in più. Ecco, un extracomunitario è qualcuno che viene da lontano a portare qualcosa in più».
«E questo qualcosa in più è una cosa bella?».
«Certamente!, esclama Amadou accalorato, tu ed io, una volta giunti in Italia, diventeremo extracomunitari. lo sono così così, ma tu sei di sicuro una cosa bella, bellissima».
L’uomo riprende a far correre lo sguardo sulla superficie dell’acqua, quando Ousmane lo informa che l’interrogatorio non è ancora terminato: «Cosa vuol dire immigrato?».
Lo zio stavolta sembra più preparato e risponde immediatamente: «Immigrato è una parola ancora più bella di extracomunitario. Devi sapere che quando noi extra comunitari arriveremo in Italia e inizieremo a vivere lì, diventeremo degli immigrati».
«Anche io?».
«Sì, anche tu. Un bambino immigrato. E siccome sei anche un extracomunitario, cioè uno che porta alla comunità qualcosa in più di bello, tutti gli italiani con cui faremo amicizia ci diranno grazie, cioè ci saranno grati. Da cui, immigrati. Chiaro?».
«Chiaro, zio. Prima extracomunitari e poi immigrati».
«Bravo», approva Amadou e ritorna soddisfatto ad ammirare il mare che abbraccia la nave.
Ciò nonostante, non ha il tempo di lasciarsi rapire nuovamente dai flutti che il bambino richiama ancora la sua attenzione: «Zio…».
«Sì?», fa l’uomo voltandosi per l’ennesima volta.
«E cosa vuol dire clandestino?».
Questa volta Amadou compie un enorme sforzo per sorridere, tuttavia riesce nell’impresa: «Clandestino… Sai, questa è la parola più importante. Noi extracomunitari, prima di diventare immigrati, siamo dei clandestini. I comunitari, come quasi tutti gli italiani che incontrerai di passaggio, molto probabilmente ancora non lo sanno che tu hai qualcosa in più di bello e qualcuno di loro potrà al contrario insinuare che sia qualcosa di brutto. Tu non devi credere a queste persone, mai. Promettilo!». Il tono dell’uomo diviene
all’improvviso aggressivo, malgrado Amadou non se ne accorga.
«Lo prometto!» si affretta a rispondere il bambino, sebbene non sia affatto spaventato.
«Per quante persone possano negarlo, prosegue lo zio, tu sei qualcosa in più di bello e questo a prescindere se tu diventi un immigrato o meno, a prescindere da quel che pensano gli altri. E lo sai perché?».
«Perché?».
«Perché tu sei un clandestino. Tu sei il destino del tuo clan, cioè della tua famiglia. Tu sei il futuro dei tuoi cari…».
L’uomo riprende ad osservare il mare.
Ousmane finalmente smette di fissare lo zio e si volta anch’egli verso le onde.
Mi correggo, il suo sguardo le sovrasta e punta oltre, all’orizzonte. «Sono il futuro dei miei…», pensa il bambino. Le parole si mescolano ad orgoglio e commozione, gioia e fierezza. E chi può essere così ingenuo da pensare di poterlo fermare?



domenica 19 giugno 2011

Le parole creano mondi > Respingimenti

respingimenti : la resistibile ascesa di una parola di regime

pina piccolo

Impugnata a mo’ di randello dal ministro degli interni Maroni, dal 6 maggio 2009, la poco elegante parola respingimenti si è imposta con prepotenza nel lessico italiano. In molti si augurano che non prenda piede radicandosi nel vocabolario e nella Weltaschaaung italiana, come purtroppo è invece avvenuto per altri termini relativi al fenomeno migrazione, come l’apparentemente spiritoso ma denso di eurocentrismo “vúcumprà”, l’asettico-sociologico flussi migratori, o il grondante di “eau de questura” permesso di soggiorno.

Respingimenti: in origine parola dalla forte connotazione burocratica, evoca file di impiegati operosi alle prese con pile di pratiche su cui appongono dei timbri. Tra aloni d’inchiostro a stento si decifra su alcune la parola “ammesso” e su altre “respinto”, mentre in alto, sopra uno scaffale, un faldone polveroso reca la dicitura “Respingimenti” - termine astratto che vorrebbe r/accogliere l’intera categoria oscurando le ben più concrete singole vite dei respinti. Respinti, parola che a sua volta ha un non so ché di scolastico, fa pensare ad una bocciatura, a una lunga fila di compagni di classe poco studiosi che abbiamo perso di vista l’anno successivo alla loro condanna, e che oggi con dicitura forse ancor meno elegante e decisamente più pragmatica, presa di peso dall’americano “loser”, verrebbero definiti “perdenti”. Un passaggio semantico in linea con una visione del mondo da periferia dell’impero agli albori del XXI secolo ormai secoli lontana dal “ciclo dei vinti” di verghiana memoria, da agognati riscatti del proletariato o da reminiscenze evangeliche sugli ultimi che saranno i primi.

In epoca pre-maroniana, la parola “respingimenti” poteva riportare alla mente una qualche poesia neo-classica/romanticheggiante, forse un epigono di Monti o di Foscolo che verseggiava sui “respingimenti” sofferti da uno spasimante poco fortunato il cui ardore fosse stato rifiutato/respinto da una caparbia amata circondata da crinoline. Certo non poteva fare venire in mente barconi di africani disperati rimandati da gendarmi europei a soffrire le pene dell'inferno in paesi poco ossevanti dei diritti umani come la Libia.

Ma invece no, dal 6 maggio, il vocabolo è irrotto con prepotenza nel territorio semantico di quella “push/pull” teoria della migrazione del geografo inglese Ernest Ravenstein che utilizzò dati demografici dell’Inghilterra e del Galles per elaborare la sua teoria esposta nel libro “Laws of Migration” (1889). Inizialmente la teoria si riferiva alle migrazioni interne, ed è stata rielaborata in epoca più recente da Everett S. Lee (1966) in contesto di migrazioni internazionali. La teoria ipotizzava che la migrazione fosse governata da un meccanismo di “push-pull” cioè dei fattori che “spingevano” (push) il migrante via dalla terra d’origine e altri che lo “attraevano” (pull) verso un’altra destinazione. Una teoria che, nonostante i limiti, potrebbe fornire degli elementi per capire quei fattori che spingono via dai più diversi paesi del Sud del mondo -- miseria, dittature, guerre, torture – e quelli che invece attraggono verso i centri ricchi del mondo – migliori prospettive economiche, relativa protezione da regimi autoritari, assenza di guerre. Grazie al contributo berlusconiano siamo adesso pionieri nella pratica del push-pull-push back, un’innovazione che è in chiara violazione della Convenzione di Ginevra sul diritto all’asilo e della quale c’è poco da andare fieri.

È interessante notare la difficoltà linguistica suscitata da questa parola nella traduzione in articoli della stampa internazionale. Il termine “respingimento” viene tradotto in francesce “refoule” che richiama di più “represso” (cioè quello che, secondo il trattato di Ginevra, non bisognerebbe fare a potenziali rifugiati), mentre invece nei giornali di lingua inglese utilizzano la parola “deportation”, anche se gli Stati Uniti non sono esenti da simili politiche con riguardo agli haitiani i cui barconi sono ormai da decenni tranquillamente “returned” o “pushed back” da dove sono venuti (anche in epoca clintoniana o obamiana).

Sono ormai alcuni anni che la logica del push-pull non fa presa sull’ethos sviluppatesi nel periodo craxiano per una grande fetta della popolazione italiana che in quello specchio deformante si riconosce. In preda ad amnesia storica, milioni di italiani adulti hanno dimenticato che milioni di loro connazionali, non delinquenti, a cavallo tra ottocento e novecento hanno lasciato l’Italia per le Americhe (spinti o da necessità economica o dallo stato autoritario, basta ricordare le migliaia di anarchici che sono andati in esilio o in America o in altre parti del mondo), che durante il periodo fascista un gran numero di fuoriusciti (un chiaro richiamo al fattore “push”) si era rifugiato in paesi più ospitali d’Europa o d’America, e che dagli anni 50 molti hanno cercato fortuna in altri paesi d’Europa, chi per motivi economici, chi per poter studiare o fare passi avanti nella carriera non condizionati dai clientelismi che contraddistinguono la situazione italiana (seppur non riconosciuta come tale, la fuga di cervelli è anch’essa una forma di migrazione che segue meccanismi di push-pull). Lo specchio deformante, che ha radici nel periodo craxiano ma che si è insediato con il massimo della volgarità in epoca berlusconiana, rimanda l’immagine di un’Italia come paese in cui si sta bene (a parte qualche sacca di degrado principalmente nel sud) che attirerebbe orde di malintenzionati attratti dal pugno poco fermo dei politici italiani e dal buocuore e disponibilità degli Italiani “buona gente”. Da qui a quello che è successo il 6 maggio il passo è breve. In quella data, infatti, la parola si sposta da polverosi scaffali e crinoline ottocentesche a barconi nel mediterraneo, gli stessi che solo qualche settimana prima brulicanti di umanità varia erano stati oggetto di scaricabarilato tra Malta e Italia, mentre disidradati centinaia di africani dalle varie tonalità di pelle aspettavano in balia del fato e delle onde. Nel trasbordo da una nave all’altra una di loro, la diciottenne Esceth Ekos, era scivolata tra i flutti e annegata. Il corpo recuperato era stato sistemato in un telo a poppa, una specie di Nike inversa simbolo della depredazione e sconfitta di un’intero continente e denuncia delle responsabilità dell’occidente. Vista da questa prospettiva, la parola sembra essere entrata in un territorio a cui non appartiene.

La nuova accezione della parola “respingimenti” è approdata nel lessico italiano dunque solo qualche settimana dopo l’episodio di cui sopra, quando con mossa fulminea, il tiranno che spadroneggia su un’altra isola del mediterraneo, dove con cadenza settimanale dall’aria fa sbarcare a spese dei contribuenti giullari e odalische, forte dell’entrata in vigore del Trattato Italia-Libia, ha decretato la fine dei tentennamenti riguardo gli sbarchi di africani sulle coste italiane. Ai mesi di martellamenti ideologici ad opera della stampa e delle tv a lui asservite e alla discussione dei decreti e disegni di legge come il pacchetto di sicurezza o le ronde, è seguita una escalation di episodi di crudeltà da parte dell’italica gente che va dagli incendi appiccati ai campi Rom, all’indifferenza dei bagnanti per le ragazzine Rom annegate, all’uccisione di Abba, alla strage di africani a Castelvolturno, all’aggressione da parte della polizia di Immanuel Bonsu a Parma, al rogo del migrante indiano nella stazione di Terni e innumerevoli altri episodi ad ogni latitudine del paese. Una volta appurato il “consenso” di larga parte della popolazione, il governo si è sentito libero di fare quest’ulteriore passo avanti, nonostante le critiche dell’ONU, degli organismi per i diritti umani e a livello internazionale. E da qui a “respingimenti” di altri elementi scomodi, che magari non arrivano in barconi ma sono già residenti sull’italico suolo il passo potrebbe essere breve. Invece che respingimenti verso la Libia, si potrebbe ritornare a respingimenti verso il confino o alle isole di mussoliniana memoria.

In inglese l’assonanza tra le parole “words” e “worlds” rende ancora più evocativo il concetto “words create worlds” (le parole creano mondi), un’idea che trova universale risonanza nell’importanza attribuita alle parole e ai proverbi nella cultura africana, nella bibbia (“La morte e la Vita stanno nel potere della lingua”, è scritto nel Libro dei Proverbi), e, in un contesto “moderno” nel concetto lacaniano di linguaggio non come mero strumento per la rappresentazione della realtà ma come elemento di fondo della sua strutturazione. Da questo punto di vista adottare e accogliere un termine come respingimenti significa quindi partire dal linguaggio per preparare il terreno (mondo) in cui sia normale “re-spingere” altre persone verso destini poco felici assolvendoci da ogni responsabilità per quello che li attende sull’altra sponda.

Il rischio è che se non si pone freno e non si fa emergere un largo dissenso verso il dilagare di questo spirito di violenta chiusura, un termine come “respingimenti’ si sedimenterà nel lessico e nella coscienza italiana, rendendolo normale come un altro termine a cui ormai ci siamo assuefatti: i cosidetti “danni collaterali”. O storicamente a un altro termine che l’italiano ha regalato al lessico modiale: la parola ghetto. Il fatto che le vittime civili abbiano ormai cambiato nome per essere avvolte in in sudario di malevolo tecnicismo, potrebbe suggerire che accettando la parola “respingimenti” oltre a decretare ulteriori malanni e torture a migliaia di persone già provate e represse, ci abitueremo a mascherare con tali neologismi la vocazione a infierire sui più deboli, rassegnandoci all’inaugurazione di un’altra stagione di tolleranza verso la repressione.


1Da un’esauriente esposizione pubblicata in Melting Pot Europa del 13 maggio 2009, http://www.meltingpot.org/articolo14502.html: Il “”principio del non respingimento (non refoulement) è uno dei principi cardine del diritto internazionale del rifugiato e può essere sintetizzato come il divieto che il richiedente asilo o il rifugiato sia respinto verso luoghi ove la sua libertà e la sua vita sarebbero minacciati. Molteplici sono gli strumenti di diritto internazionale che codificano tale principio, in primis la Convenzione di Ginevra relativa allo Status dei Rifugiati del 1951 che all’art. 33 proibisce che un il richiedente asilo o il rifugiato sia espulso o respinto in alcun modo “ […] verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.” (4) Lo stesso principio è riaffermato sia direttamente che indirettamente da numerose Convenzioni Internazionali in difesa dei diritti umani, sia a livello universale(5) che a livello regionale.”