Programma Educazione alla Pace presentato da Tindara Ignazzitto - Consulta per la Pace di Palermo

Programma di Educazione alla Pace - TPRF

mercoledì 30 giugno 2010

Il razzismo comincia dalle parole "normali": il razzismo "democratico". Intervista a Giuseppe Faso



Cos’è il razzismo democratico?

È quello che spesso non sa di essere tale, anche se è diffuso nella società e incoraggiato dalle istituzioni. Di solito è segnalato dalla frase: “Non sono razzista, ma...”.

Incoraggiato dalle istituzioni?

Sì, c’è un razzismo dei cosiddetti “antirazzisti” che è ancora più grave di quello consapevole - perché spesso tocca a queste persone prendere decisioni sugli stranieri.

Per esempio?

Si fanno delle discriminazioni in base alle appartenenze geografiche che vengono “naturalizzate”.

Cioè trasformate in caratteristiche innate?

Sì. Così nelle scuole si dice di un bimbo: “Non va bene a matematica nonostante sia cinese”. Come se nell’essenza delle persone di origine cinese ci fosse una predisposizione alla matematica e una difficoltà a imparare l’italiano. È il caso più ingenuo: ce ne sono di cruenti.

Cruenti?

Dopo due stupri, a Roma, l’allora sindaco Walter Veltroni, del Pd, disse: “La matrice è la stessa”. Parlava del fatto che in due episodi c’erano sospettati romeni (diversi) e faceva risalire alla comune origine romena il delitto. Questo è razzismo.

Intende il fatto di ragionare per categorie e non per individui?

Tendiamo spesso a pensare per categorie anche quando non ci sono: esperimenti psicologici hanno dimostrato che se dici a una persona che appartiene a un determinato gruppo, questa trova elementi in comune con gli altri appartenenti ad esso - anche se il gruppo è stato estratto a sorte. Il problema è che chi interviene nel dibattito pubblico non tiene conto di queste tendenze.

Con chi ce l’ha?

Con politici, giornalisti, commentatori: dovrebbero avere un surplus di responsabilità, perché condizionano il modo in cui pensano gli altri. E sono tanto più pericolosi quanto più sono democratici.

Perché?

È più facile difendersi da uno che dice “cacciamoli via”, che da chi dice “bisogna combattere i pregiudizi razziali, ma nel rispetto delle leggi”, come scrisse l’attuale governatore della Toscana in campagna elettorale. Cosa c’entra? Mettere in connessione le due cose significa dare per scontato che se hai a che fare con stranieri, ci sono persone che violano la legge. È subdolo: fa passare i contenuti di discriminazione in un discorso che sembra neutro.

Lei critica anche il modo in cui vengono gestite le consulte degli stranieri...

Non tutte: critico quelle in cui si fa votare gli stranieri per provenienza. Nel momento in cui si decide di dare voce - simbolicamente, perché non hanno potere decisionale - agli immigrati, si fanno esprimere a gruppi: gli asiatici, gli africani, i sudamericani. Questo è tribalismo: nostro, non degli immigrati.

Cioè?

Si antepone la provenienza geografica al diritto di scelta individuale. Come se gli stranieri fossero organizzati in tribù, come se gli indiani, solo perché stanno in Asia, pensassero uguale ai cinesi. E i cinesi ricchi come quelli poveri. Vuol dire che cresce la tendenza a far dipendere le posizioni personali da quelle delle comunità: stiamo diventando più conformisti. È evidente nelle parole.

Che c’entrano le parole?

Tacito diceva: “Quando vogliamo far accettare un atto degno di biasimo, cambiamo le parole”. Anche noi ci siamo visti cambiare le parole, con nuovi significati positivi o negativi. Prima nessuno diceva “badante”. Da quando Umberto Bossi e la Lega sono andati in tv a parlare di badanti, lo diciamo tutti.

Qual è la parola che secondo lei meglio racchiude il “razzismo democratico”?

“Degrado”. Le misure “anti-degrado”, oggi, sono quelle contro writer, lavavetri, prostitute, mendicanti, rom, per garantire la “sicurezza” dei cittadini. Fino agli anni ‘80 però il degrado era solo quello dei muri e delle case a rischio crollo: il significato originario, da dizionario, del termine.

E dove sta il razzismo, qui?

Lo spostamento di senso ha diffuso la paura nei confronti degli immigrati: attribuisce loro un senso di minaccia. È passata l’idea che la mia incolumità è a rischio se qualcuno scrive sui muri o si prostituisce. E che i sindaci di questo debbano occuparsi.

Un altro termine che lei non ama è “disperati”.

Gli immigrati che arrivano sulle navi non sono disperati. Sono pieni di speranza: hanno progetti, voglia di migliorare la loro vita. George Orwell, in 1984, scriveva che un regime autoritario passa anche attraverso la sostituzione del vecchio linguaggio con una nuova lingua. Che toglie umanità a determinate categorie di persone e ci impedisce di essere solidali con loro.

Che conseguenze ha tutto questo sui ragazzini italiani figli di immigrati?

Una signora romena mi ha raccontato, che dopo l’ennensimo “allarme romeni” suo figlio non voleva più andare a scuola: i compagni continuavano a dire che i romeni sono tutti delinquenti. Il risultato è che i ragazzi di seconda generazione sono costretti ad abbandonare la loro identità per farsi accettare. A cancellare la memoria dei loro genitori.

Elena Tebano elena.tebano@rcs.it

29 giugno 2010

Fonte: city.corriere.it e www.facebook.com/notes/cristina-sebastiani/intervista-a-giuseppe-faso-autore-di-lessico-del-razzismo-democratico/404378550950

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Giuseppe Faso è insegnante di italiano e latino al liceo, pugliese emigrato in Toscana, collabora con l'associazione Africa Insieme, è fondatore della Rete Antirazzista e dirige il Centro Interculturale Empolese-Valdelsa. "Lessico nel razzismo democratico" Ed. Derive e Approdi, esce nel 2008 in prima edizione e nel 2010 in seconda edizione.


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