La violenza contro il corpo femminile non risparmia nessun Paese. E colpisce anche le migranti. Voci dal Festival di Internazionale.
Tracciare una linea che delimiti il fenomeno è impossibile. Non esistono confini territoriali, culturali, etnici o religiosi al di là dei quali non si compia, ogni giorno, violenza contro il corpo femminile. È un dramma trasversale che non risparmia nessuna: italiane, afghane, cinesi, congolesi, statunitensi, messicane… E migranti di ogni nazionalità. Perché quando una donna si mette in marcia verso l’ignoto è consapevole che tra i rischi che corre c’è anche l’abuso. E se lo affronta, a volte è anche perché sa che le violenze durante il tragitto saranno transitorie, mentre quelle che rischiebbe restando a casa, non avrebbero fine. Non è una coincidenza che, in un momento in cui anche in Italia è aperto il dibattito sul femminicidio, tra gli argomenti più dibattuti al Festival della rivista Internazionale, tenutosi una settimana fa a Ferrara, ci sia stato proprio la violenza sulle donne.
«È un’epidemia», sancisce Rebecca Solnit, saggista statunitense. «E come tutte le epidemie può essere curata e ridotta nella sua virulenza. Tanto più che non è biologica, ma culturale e sociale». Urvashi Butalia, indiana, fondatrice della prima casa editrice femminista nel suo Paese (Kali for Women) aggiunge: «Si devono trovare nuove armi contro questa epidemia. Come la conoscenza: bisogna dare voce alle donne, perché possano raccontare le loro storie e diventare consapevoli che, dopo uno stupro, può esserci ancora vita». Le parole, dunque, possono costituire la salvezza. Così è stato per Mona Eltahawy, attivista egiziana che dopo anni negli Usa è tornata nel suo Paese quando è iniziata la rivolta contro Mubarak. «Twitter mi ha salvato la vita», racconta. «Sono stata arrestata dai militari, trattenuta per 12 ore e sottoposta a violenze di ogni tipo: se non fossi riuscita a comunicare con l’esterno tramite un tweet, forse sarei morta». Mona non intende arrendersi: «C’è una rivoluzione politica che sta avvenendo nel mio Paese, ma fallirà se non si accompagnerà a un cambiamento di mentalità che riguardi anche le questioni di genere», sostiene. «Abbiamo una doppia rivoluzione da combattere: contro il regime politico per le strade e contro il regime domestico dentro le case. Io parlo apertamente delle violenze che ho subito, non ho niente di cui vergognarmi: la vergogna è di chi mi ha usato violenza».
Avere il coraggio di raccontare l’inimmaginabile può cambiare le cose: ci crede Chouchou Namegabe, giornalista della Repubblica Democratica del Congo che ha fondato Afem, un’associazione di donne che lavorano nei media e impiega tutte le sue energie e la sua professionalità per svelare gli orrori compiuti nel Sud Kivu. Si tratta di una zona ricchissima di minerali che miliziani di ogni provenienza ambiscono a controllare. Per convincerne gli abitanti ad andare via aggrediscono le donne. «Ne usano il corpo come un’arma di distruzione di massa: sanno che se annientano loro, l’intera comunità sprofonda», spiega. La sua è un’area poco sviluppata e la radio è l’unico strumento per fare informazione. «La prima volta che abbiamo trasmesso la testimonianza di una donna, la gente si è ribellata: non si doveva parlare apertamente di certe cose, sono problemi femminili! Ma non è così: questo dramma riguarda l’intera comunità». Ascoltare i resoconti di Chouchou Namegabe ferisce nel profondo dell’anima: figli costretti a stuprare la madri; madri costrette ad assistere all’uccisione dei figli e poi a mangiarne la carne. Chouchou ha imparato le parole per descrivere questi orrori, ma non sembra credere che per tanta, disumana brutalità possa esserci guarigione. O redenzione. Vuole solo portare alla luce la verità. E salvare quante più vittime possibile.
Eppure, a sentire parlare lei e altre donne che si impegnano con il suo stesso coraggio, la speranza sembra quasi tangibile. E di speranza sono fatte le storie di tre migranti: Yergalum, Aminata e Shirin, oggi rifugiate politiche in Italia, che per arrivare in Europa hanno affrontato un viaggio infernale, sfuggendo a un inferno ancora più insopportabile. Le racconta il giornalista Luca Attanasio in un libro dal titolo quasi ovvio: Se questa è una donna (L’erudita, 13 euro), uscito l’anno scorso e ripubblicato qualche mese fa con la prefazione di Silvia Costa e la quarta di copertina firmata da Laura Boldrini. Yergalum è una ragazza etiope, fuggita da un matrimonio con un uomo di 40 anni più vecchio, la quale grazie all’aiuto economico di un giovane innamorato (quattromila dollari le tocca versare “nelle casse delle mafie di mezza Africa”) riesce ad attraversare buona parte del continente, sopravvivere a mille sopraffazioni e imbarcarsi infine per Lampedusa. Aminata, in Burkina Faso, viene salvata dalla zia mentre si trova sul letto dove sta per essere infibulata e vive anni di persecuzione per questa scelta “eversiva” fino a quando non riesce ad arrivare in Italia. Shirin, iraniana data in sposa quattordicenne a un uomo afghano, dopo anni difficilissimi racimola con la complicità della madre abbastanza denaro per attraversare, con la figlioletta, tutti gli stati che la separano dall’Italia.
Ma da dove arrivano le storie che Luca Attanasio, presente anche lui al Festival di Internazionale, racconta? «Nel 2010 il direttore di un Centro di recupero per le vittime di tortura di Roma mi ha chiesto di aiutarlo a raccogliere dati e storie. Tra tutte le donne con cui ho parlato, queste tre sentivano più forte il desiderio di raccontare, di liberarsi. Le ho incontrate molte volte, alla presenza di una psicologa. E ascoltandole, quella che doveva essere un’inchiesta giornalistica ha preso naturalmente la forma di un racconto letterario», risponde l’autore. Cosa fanno ora le tre protagoniste del suo libro? «Yergulum ha 32 anni, vive in una piccola casa-alloggio per rifugiati e sta cercando di costruirsi una professionalità: ha frequentato dei corsi per diventare cuoca e guadagna facendo la colf. Aminata ha 35 anni e abita in un grosso centro di accoglienza per rifugiati. Provenendo da una famiglia colta, oltre a lavorare come badante presso tre famiglie, studia per diventare perito turistico: l’Università Gregoriana le ha messo a disposizione una stanza perché possa concentrarsi in pace. Shirin ha 31 anni e la sua è la situazione più difficile: oggi ha tre figli, ma due le sono stati tolti. Anche se li adora, non è in grado di occuparsene: le esperienze di violenza che ha alle spalle la perseguitano. Ci sono dettagli agghiaccianti, nelle storie di queste ragazze, che io stesso ho scelto di non inserire nel libro perché non sarebbero sembrati verosimili». Che idea si è fatto, attraverso questo suo lavoro, della migrazione al femminile? «Il coraggio che hanno le donne che migrano è il doppio, il triplo, di quello che hanno gli uomini. I viaggi che affrontano sono vere e proprie odissee. E una volta giunte a destinazione mostrano una motivazione ferrea a rifarsi una vita. In un Paese come il nostro, afflitto dalla corruzione, che ha perduto senso e valori, dove ogni giorno si contano le vittime dei femminicidi, come si fa a considerare donne così un problema e non una risorsa? La loro determinazione, insieme al senso di gratitudine che provano nei confronti dell’Italia che le ha accolte, possono insegnarci tantissimo. E contribuire a creare una società migliore».
Gabriella Grasso
Su Corriere Immigrazione del 14 ottobre 2013