Lo avevamo detto da tempo, ma nessuno ha ascoltato. L'emergenza
immigrazione deve terminare ( almeno sulla carta) entro il 31 dicembre
2012, i servizi di accoglienza vanno chiusi, dopo essere costati un
patrimonio a partire dalla proclamazione dello stato di emergenza
dichiarato da Berlusconi nel febbraio del 2011, degli sbarchi che
continuano se ne deve parlare il meno possibile, i vecchi accordi
bilaterali vanno ancora bene. Adesso, alla fine dell'anno, i migranti
ancora nei centri di accoglienza gestiti dalla protezione civile
saranno rigettati sulla strada, bene che vada con un permesso di
soggiorno temporaneo, ed i reclusi di Lampedusa possono attendere,
prima o poi quando le indagini di polizia avranno permesso di scovare
i soliti scafisti, saranno trasferiti altrove, o rimpatriati, come è
successo in questi mesi, senza che l'opinione pubblica ne fosse
minimamente informata. Le elezioni si avvicinano e immigrazione e
asilo sono temi sui quali si possono solo perdere voti. Eppure le
tragedie dell'immigrazione irregolare si ripetono, non solo nelle
acque del Mediterraneo, mentre la "gente", nella morsa della crisi
conomica, sembra assuefatta a tutto. Neanche i cadaveri che vengono a
galla costringono ad una riflessione che vada oltre il pietismo di
facciata.
Scrivevamo due mesi fa dopo la strage dell'isolotto di Lampione vicino
Lampedusa: " Malgrado i contorni ancora confusi dell'ennesima strage
nelle acque prospicienti Lampedusa, nei pressi dell'isolotto
disabitato di Lampione, a ovest dell'isola, primo lembo di terra
italiano di fronte ai porti tunisini di Mahdia e Monastir, appare
ormai certo come il dispositivo di controllo e di salvataggio che
prima era dispiegato nelle acque a sud di Lampedusa, anche a 60 miglia
a sud dell'isola, operi ormai a stretto ridosso delle isole Pelagie.
Alla dichiarazione di Lampedusa come "porto non sicuro", formalmente
adottata nel settembre del 2011 dal Corpo delle Capitanerie di porto
su forte sollecitazione dell'ex ministro dell'interno Roberto Maroni,
è seguito il riposizionamento di tutte le unità navali che prima
facevano base a Lampedusa, molte delle quali sono state utilizzate per
i trasferimenti dei migranti verso Porto Empedocle (Agrigento) e
comunque dislocate più a nord, al limite delle acque territoriali
italiane. Si è consentito così, per un verso, un avvicinamento alle
coste italiane più facile dei mezzi che trasportano migranti, spesso
anche pescherecci, che riescono ad eludere la sorveglianza delle unità
libiche e tunisine, ma si è impiegato anche più tempo per raggiungere,
(e salvare) in un numero molto minore di casi, i migranti che si
trovano ancora in acque internazionali, magari in procinto di
affondare nel corso della loro traversata verso la fortezza Europa.
Anche in questo ….. caso verificatosi nella serata di giovedì 6
settembre, dal momento del primo allarme telefonico fino ai primi
interventi di salvataggio, sarebbero passate alcune ore, anche a causa
del calare della notte che ha reso più difficili le ricerche. Si è
ritenuto forse che lasciare mano libera alle unità libiche e tunisine,
alle quali si è permesso di riprendere i migranti in fuga verso
l'Europa, consentisse di allentare la sorveglianza nelle acque
internazionali a sud e ad ovest di Lampedusa, ed in effetti, rispetto
allo scorso anno, gli sbarchi sono diminuiti del 90 per cento. Ma non
certo perché Lampedusa è stata dichiarata "porto non sicuro", una
decisione del tutto infondata dal punto di vista tecnico perché non si
può qualificare come "non sicuro" un luogo di approdo che nel corso
degli anni ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di vite,
solo perché il locale centro di prima accoglienza e soccorso (CSPA),
trasformato impropriamente in centro di detenzione, era stato
incendiato ( nel settembre del 2011) durante una protesta dei migranti
che vi erano illegalmente trattenuti da settimane.
Secondo un comunicato dell'ACNUR del 30 giugno scorso, la maggior
parte delle imbarcazioni che partono dalla Libia venivano riprese dai
mezzi libici che, in base ai vigenti protocolli operativi,
intervengono anche in collaborazione con mezzi militari maltesi ed
italiani. E si hanno pure notizie di imbarcazioni tunisine o algerine
riprese dai mezzi militari di quei paesi e ricondotte nei porti di
partenza. Ormai dopo la dura condanna dell'Italia da parte della Corte
Europea dei diritti dell'Uomo per i respingimenti collettivi verso la
Libia effettuati dalla nave Bovienzo della Guardia di Finanza il 6
maggio 2009, il "lavoro sporco", consistente nel blocco dei migranti
in mare e nella loro riconduzione violenta nei porti di partenza, è
stato esternalizzato in base agli ultimi accordi bilaterali firmati da
Maroni con la Libia e la Tunisia. Quanto avvenuto fino alla tragedia
di settembre davanti allo scoglio di Lampione, ( un naufragio quando
già i migranti erano in vista di Lampedusa), costituisce una
conferma di quanto è stato sostenuto in varie occasioni anche dal
ministro dell'interno italiano Cancellieri, secondo la quale ogni
stato rivierasco del Mediterraneo deve sorvegliare le proprie acque
territoriali per contrastare l'immigrazione clandestina in Europa. E
su questi profili operativi sembrano ancora vigenti gli accordi di
cooperazione interforze tra le autorità libiche, tunisine, algerine e
quelle italiane".
Adesso i mezzi militari italiani sono stati schierati più a sud, o
comunque sono tenuti pronti per intervenire in acque libiche, forse
anche per difendere i pescherecci di Mazara del Vallo, ben sei
provenienti da questa marineria sono stati sequestrati nel corso del
2012 dai libici e dai tunisini, quando le motovedette italiane si
erano ritirate più a nord e si limitavano a pattugliare soltanto la
zona contigua alle nostre acque territoriali, 24 miglia circa a sud di
Lampedusa. Intanto le autorità maltesi continuano a non intervenire,
anche quando sono le prime a scoprire sugli schermi radar una carretta
del mare in navigazione verso la Sicilia. Gli sbarchi delle ultime
settimane, per intenderci nel mese di ottobre, meglio i salvataggi
riusciti all'ultimo minuto sempre più a sud di Lampedusa, fino a 30-40
miglia dalle coste libiche, ed a 130 miglia a sud di Lampedusa fanno
comprendere che qualcosa è ancora mutato, le partenze dalla Libia sono
riprese, e i mezzi militari di quel paese non bloccano più i natanti
carichi di profughi prima ancora di uscire dalle acque territoriali,
forse anche in dipendenza con rinnovato clima di scontro, anche
armato, che si registra tra le diverse fazioni libiche. Una situazione
che vede i migranti come vittime designate, soprattutto chi ha la
pelle nera viene facilmente scambiato per un mercenario che ha
combattuto per Gheddafi e sottoposto a processi sommari che si possono
concludere anche con una esecuzione in piazza. E malgrado la
situazione in Libia, la chiusura del campo profughi di Coucha, al
confine tra Libia e Tunisia, ha costretto tanti altri migranti che
avevano chiesto protezione internazionale ricevendo un rifiuto, a
ritornare in Libia ed a ritentare la traversata in mare verso
l'Europa. Sempre più spesso anche a costo della vita. Non è certo un
caso se ad arrivare dalla Libia negli ultimi tempi siano soprattutto
somali e migranti provenienti dal Corno d'Africa ( Eirtrea, Etiopia),
mentre sono quasi scomparsi i nigeriani, i ghanesi ed in genere i
migranti provenienti dall'Africa sub sahariana. Arrivano solo coloro
ai quali le milizie libiche permettono di partire. Continua invece un
flusso modesto ma costante di tunisini, che vengono bloccati a tempo
indeterminato nel CPSA di Lampedusa o in centri informali, senza alcun
rispetto per le procedure previste dalla legge e dal regolamento
frontiere Schengen, per i quali continuano ad operare dall'aeroporto
di Palermo Punta Raisi i due voli settimanali di rimpatrio sommario,
senza identificazione individuale, come concordato da Maroni in
Tunisia il 5 aprile 2011.
Si deve rendere sicuramente merito alle unità militari italiane che si
spingono sempre più a sud a salvare vite umane ed a proteggere i
pescherecci che operano in acque internazionali, quelle stesse acque
che i libici ritengono ancora di loro competenza fino a settanta
miglia dalla costa, ma si deve chiedere altresì al governo italiano di
porre fine alle prassi di polizia di trattenimento prolungato o del
tutto informale dei migranti portati a terra dopo operazioni di
salvataggio che destano ammirazione in tutto il mondo. E vanno pure
rinegoziati gli accordi con la Libia, rimettendo al primo posto la
tutela della vita umana in mare e non il contrasto dell'immigrazione
clandestina, come sembrava ancora emergere dal verbale dell'incontro
tra il ministro dell'interno Cancellieri ed il suo omologo libico, lo
scorso 3 aprile. Un incontro che nella sostanza, a parte i
respingimenti collettivi sanzionati dalla Corte Europea dei diritti
dell'Uomo con la sentenza sul caso Hirsi nel febbraio di quest'anno,
confermava ancora i protocolli operativi e la comune catena di
comando, concordati con le autorità libiche da Amato e da Manganelli
nel novembre del 2007, e poi recepiti nel Trattato di amicizia firmato
nell'agosto del 2008 da Berlusconi e da Gheddafi . Eppure ormai tutti
sanno che la maggior parte delle persone che arrivano dalla Libia sono
potenziali richiedenti asilo, ne ha preso atto anche il governo che
nei giorni scorsi ha adottato un provvedimento che prevedere il
riesame di tutti i casi di diniego di uno status di protezione da
parte delle commissioni territoriali nei confronti dei profughi
arrivati dalla Libia, un orientamento che ha fatto perdere un sacco di
tempo alle persone interessate ed è costato una montagna di danaro
pubblico alle casse dello stato, allontanando forse per sempre le
possibilità di integrazione, ma creando soltanto astio e frustrazione.
Le stragi ricorrenti impongono una svolta nelle politiche migratorie a
livello internazionale. Occorre rivedere a livello europeo i rapporti
con Malta, paese con la più vasta zona (SAR) di ricerca e salvataggio
a sud d'Europa, che deve essere un punto di salvataggio e sbarco al
pari di Lampedusa e che non si può limitare a trasmettere gli allarmi
che riceve, con comunicazioni successive che possono fare perdere ore
preziose per gli interventi di salvataggio. Malta non può
evidentemente accogliere tutti i naufraghi che arrivano dalla Libia,
due mila persone sbarcate in questa piccola isola, come è successo
quest'anno, corrispondono a duecentomila migranti arrivati in Italia.
Dopo il salvataggio, a livello europeo, anche con un diverso impegno
dei mezzi impiegati dall'agenzia Frontex, occorre garantire a tutti lo
sbarco in un place of safety, porto sicuro, che nel linguaggio delle
convenzioni internazionali significa un luogo dove i diritti
fondamentali della persona vengono rispettati, dove si possa fare
valere il diritto alla protezione, e non certo il porto più vicino.
Vanno dunque previste procedure rapide di ritrasferimento da Malta in
altri paesi europei, nessuno si può sottrarre al rispetto degli
obblighi di salvataggio e protezione che discendono dalle convenzioni
internazionali, in un momento in cui la situazione nei paesi
nordafricani non permette alcuna forma di respingimento indiscriminato
o procedure di riammissione concordate in base ad accordi bilaterali.
Accordi stipulati con governi transitori molto diversi da quelli che
adesso si stanno faticosamente formando, talvolta anche attraverso
fasi cruente, all'interno di processi politici del tutto ignorati in
Europa, ma le cui conseguenze, oltre che sui migranti, potrebbero
presto ricadere su tutti i cittadini europei.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo