Che il fenomeno migratorio abbia cambiato l'Italia e continui ogni giorno a cambiarla è sotto gli occhi di tutti. Che progressivamente, dalle fila degli immigrati, siano emerse personalità capaci di incidere nel dibattito politico e culturale e che esse siano diventate punti di riferimento, per gli immigrati ma anche per gli interlocutori italiani, è anch'esso un elemento relativamente noto. Quello di cui sicuramente si sa e si è parlato poco è il vissuto di questi leader, i sentimenti e le emozioni, ma anche le riflessioni e i dubbi, che li accompagnano nel loro percorso di impegno e di notorietà.
Edda Pando, Cécile Kashetu Kyenge, Mercedes Frias e Yvan Sagnet, procedendo da situazioni molto diverse e con percorsi individuali, oggi sono sicuramente interlocutori imprescindibili nel mondo politico, associativo e dell'antirazzismo praticato. Li vediamo in tv e li troviamo intervistati sui giornali. A loro abbiamo chiesto di raccontarsi, soffermandosi su questo aspetto – il vissuto emozionale – così poco scandagliato.
Edda Pando vive a Milano ed è originaria del Perù. E' stata una pioniera nella lotta per l'autorganizzazione immigrata. Ha dato vita all'associazione Todo Cambia. Collabora con l'Arci. Alcune apparizioni televisive, nel periodo dell'occupazione della gru a Brescia e della torre ex Carlo Erba a Milano, hanno contribuito a farla conoscere a livello nazionale.
«Mi viene in mente lo sciopero del 1988: le organizzazioni italiane allora mostravano di appoggiare la nostra causa e cercavano una assimilazione positiva. In quel periodo si sono formati leader nei sindacati ed è emersa la volontà di affermazione di molti studenti. Oggi accadono cose simili, ci sono studenti (il riferimento è a Yvan Sagnet, ndr) che scendono al Sud per guadagnarsi da vivere e pagarsi gli studi e non si rassegnano allo sfruttamento. È come se andassimo avanti a cicli, con iniziative e azioni che si fanno divorare da questo percorso. All'inizio ci muovevamo in una situazione più fluida, meno istituzionale, poi ci sono stati momenti di forte contrapposizione. Il nostro percorso verso l'autorganizzazione è stato di piccola avanguardia, ma ha avuto valenza nazionale e ha permesso di esprimere anche il conflitto interno alle organizzazioni sindacali e politiche. L'errore è stato non capire che da tutto questo non poteva scaturire un percorso collettivo: emigrare sarà anche un atto sovversivo, ma gli immigrati non sono, in quanto tali, antisistema. Nel frattempo hanno preso piede altre forme di associazionismo, è cresciuto quello delle singole comunità. Non mi piace il comunitarismo. Ha reso tutto ancor più politicizzato e spesso in maniera reazionaria. Dalla mia visuale, scorgo anche un'altra contraddizione: abbiamo lottato tanto per essere la "voce dei migranti" che non sopportiamo più di esserlo. Sembra che siamo condannati a parlare solo di immigrazione. Non possiamo avere altri ruoli. Per un po' di tempo mi sono definita come professione "migrante": lo facevo per provocare. Ma i tempi sono cambiati. E' venuto il momento di lavorare insieme, migranti e non migranti. Figuriamoci se possiamo dividerci sulla base della nazione di partenza! Dobbiamo rimettere in discussione l'idea di confine, di Stato, di ordine degli Stati. Quando ho cominciato ad avere un ruolo pubblico mi sono resa conto che la percezione che gli altri immigrati avevano di me era in molti casi divenuta differente: mi vedevano come una nemica, una che era diventata "italiana" e che da questo traeva probabilmente dei vantaggi. Dopo le mie apparizioni televisive, durante la lotta contro la sanatoria truffa a Milano e a Brescia, la percezione è cambiata. Ora gran parte dei miei compaesani è tornato a salutarmi con calore».
Cécile Kyenge Kashetu, di origine congolese (Repubblica Democratica del Congo), si è laureata in medicina in Italia e vive a Modena. Ha lavorato come medico ospedaliero e organizzato molte missioni di cooperazione sanitaria in Congo. Consigliera provinciale del Pd a Modena, oggi è anche la portavoce della Rete Primo Marzo e la presidente dell'associazione Giù le Frontiere, che è il primo sostenitore di Corriere Immigrazione e ha avuto un ruolo di primo piano nella campagna LasciateCientrare.
«La scorsa estate sono andata in visita a Palazzo S. Gervasio, uno dei tanti luoghi di sfruttamento dei lavoratori immigrati. Si era in una fase complessa di vertenze, positive per alcuni, controproducenti per altri e l'aria era tesa. E sono stata accolta, inizialmente, con grande ostilità: ero percepita come una "traditrice". Gli immigrati non mi vedevano come una di loro ma come una che era passata dall'altra parte. So che non capita solo a me, chi emerge non è spesso ben visto. Il fatto di dialogare anche con chi sta nella stanza dei bottoni è percepito come un tradimento. A Palazzo San Gervasio ho trovato anche persone arrabbiate con chi aveva scioperato contro il caporalato, perché queste azioni avevano fatto diminuire le opportunità di lavoro. Sono atteggiamenti che feriscono ma che non si possono ignorare. Se voglio davvero essere incisiva, devo tener conto anche delle posizioni di chi non ha avuto il mio percorso formativo e pensa che l'impegno politico rappresenti per tutti una scorciatoia volta a migliorare la propria posizione. Io facevo già il medico. Non avevo bisogno della politica per affermarmi. Il mio impegno è l'espressione di un bisogno etico. Ma è inevitabile che questa cosa non venga sempre capita. Nel mondo che seguo, ma credo in tutti i contesti, nascono poi gelosie ed invidie, si perseguono percorsi diversi che ci portano a scegliere fare i conti con chi segue altre vie. Non è sufficiente essere immigrati per sentirsi fratelli accomunati da un comune obbiettivo. Occorrono non solo punti comuni, ma anche la capacità di andare oltre le categorie rompendo la dinamica separatoria fra autoctoni e migranti. Con il "Primo marzo" in parte ci siamo riusciti. Ho dovuto lottare per avere un posto di lavoro in quanto donna e straniera e c'è voluto del tempo per stabilire un buon rapporto con i pazienti. Forse ora sono io che non ci faccio più caso, ma mi sembra di essere guardata meno come "africana" e molto di più come persona. Certo, qui in Italia la paura del diverso è ancora forte, ma noi non dobbiamo mollare. Dobbiamo contare molto su professionalità, competenza, metodologie di lavoro. Succede, e va detto chiaramente, che persone senza particolari meriti o capacità, riescano a conquistare il proprio posto al sole perché sanno vendersi bene. Succede anche che partiti, associazioni, sindacati cooptino immigrati per dimostrare di essere progressisti e avanzati ma li riducano a un ruolo di rappresentanza. E che gli immigrati accettino, per insipienza o per interesse. Io credo che oggi sia necessario contaminarsi e valorizzare il meticciato: risvegliare l'interesse di chi è qui da tanto e creare un po' di "memoria migrante" per chi è più giovane. Non basta parlare di cittadinanza e di diritto di voto – che pure sono passaggi ineludibili. Bisogna avere la forza e il coraggio di rilanciare due temi fondamentali: la libera circolazione e la cancellazione delle frontiere».
Mercedes Frias vive a Firenze, è arrivata in Italia all'inizio degli anni Novanta, e per due anni è stata anche deputata al parlamento italiano.
«Penso di aver vissuto tutto e il contrario di tutto. Quando sono stata eletta sono stata investita di un carico di aspettative irrealistiche. Questo si è visto presto e ha creato immediatamente delusione. Sono stata considerata l'ennesimo immigrato che riusciva a entrare nelle stanze del potere per non fare nulla. E pensare che all'inizio c'era chi mi scriveva "sei tutti noi, sei la nostra vendetta". Poi mi sono ritrovata ad essere considerata parte della "casta". Questo concetto negativo della politica, per quanto giustificato, è penetrato non solo nella cultura autoctona ma anche in quella migrante. E adesso sono una precaria "non giovane". Il presente è estremamente critico. Mi sembra che ci ritroviamo non a partire da zero ma da meno uno. Intanto il sistema ci ha inglobati e le nostre associazioni sono divenute "progettifici": ci si accontenta di una fettina della torta e si diluiscono i conflitti, li si assorbe. Ci sono tante campagne in piedi che da sole non possono rappresentare il tutto. C'è chi si concentra sui Cie e chi sulla cittadinanza ai figli. Per riuscire ad unificare le istanze dovremmo far sì che ognuno di noi cittadini immigrati si impegnasse in prima persona , senza delegare e senza lasciare fuori nessuno. Occorre un lavoro di ricucitura comunicativa con le nuove generazioni, che sono molto concentrate sulla cittadinanza ma forse non hanno del tutto chiara la portata di questioni come il razzismo, la xenofobia, il rifiuto dei rom, i diritti di chi è senza documenti e dei richiedenti asilo. Anche a sinistra e nei movimenti femministi c'è poca attenzione. A una assemblea di donne, tempo fa, mi sono trovata a dire che, se loro erano lì, sedute a parlare e ad ascoltare, probabilmente dipendeva dal fatto che qualche immigrata, in quel momento, era a casa loro, ad accudire gli anziani o i bambini. Non ho suscitato nessuna reazione. Sto seguendo la vicenda di "Alba", questo nuovo soggetto politico, che però non ci ha considerato finora fra le priorità. Vedo che anche i mezzi di informazione ci rivolgono poca attenzione. Non veniamo più indicati come il nemico pubblico ma la sofferenza dei migranti, all'interno di questa crisi, è praticamente ignorata. Non è una normalizzazione che presuppone la trasformazione in società meticcia, è assenza di allargamento del soggetto. Insomma, un quadro scoraggiante. Tanto che quando sere fa ho visto Yvan Sagnet, in tv, parlare e raccontarsi con tanta passione, mi sono emozionata e ho provato una grande stima per questo grande ragazzo».
Yvan Sagnet, il ragazzo di cui parla Mercedes, ha 27 anni, è uno studente e viene dal Camerun. E' stato l'anima della protesta di Nardò che ha portato al riconoscimento del reato di caporalato. Protagonista positivo ma anche criticato dai propri compagni di lavoro che in alcune condizioni erano costretti a cedere al ricatto.
«Noi dobbiamo entrare nella logica che stiamo costruendo la società del 21° secolo, anche se l'Italia è indietro rispetto agli altri Paesi. Negli Usa hanno rieletto Obama, in Francia e in Germania tanti immigrati hanno anche ruoli di responsabilità diffusa. Qui prevale una divisione anche a livello interno. Eppure dobbiamo renderci conto che noi saremo il nuovo secolo, ci sono paure e diffidenze da superare ma nessuno potrà fermare il futuro. Non dobbiamo accettare la guerra fra poveri e prendercela con chi emerge, occorre invece non mollare ora. Dobbiamo anche imparare dal passato per servirci del futuro. Dobbiamo costruire alleanze basate non sui leader ma sui contenuti: è quello che ti fa vincere, occupandosi delle persone, portando avanti una visione con maggior futuro della società. In fondo anche Obama ha chiesto di lavorare su un programma alternativo perché ti permette di unificare. Poi, l'esperienza concreta fa emergere problemi. Io ho cercato di costruire reti ma vedo che prevale il tentativo di imporsi personalmente. Ho conosciuto tante realtà, soprattutto nel mezzogiorno, e ho visto con i miei occhi quanta rivalità può esistere tra gli stranieri. Anche durante il nostro sciopero c'è stato chi ci vedeva come persone che volevano trarre profitto dalla lotta. Ed è dura costruire una vertenza con chi ti mette perennemente in dubbio, con chi non contribuisce e poi critica e attacca. L'Italia che conosco è un Paese afflitto dall'individualismo e dal nepotismo. Difficile in un contesto come questo far vincere l'idea di crescita collettiva. Ma se non costruisci un percorso condiviso cadi nella trappola dell'uomo forte. Vale per i migranti, vale per gli italiani. Il problema di questa società, che comprende anche noi, è quello di avviare processi di costruzione sociale, di costruire una collettività»
Stefano Galieni