E’ migrante chi viaggia per mare e per terre, lasciando non solo spazi e tempi quotidiani ma anche memorie, radici, legami, affetti, paure, ricordi di guerre, conflitti, miserie. E’ migrante chi parte da un luogo familiare, portandosi dietro la propria storia di vita, per arrivare in un posto sconosciuto, nel quale spera di poter trovare condizioni esistenziali più dignitose. E’ migrante chi elabora un progetto di cambiamento che, nella sua specificità, coinvolge ruoli, abitudini, relazioni, stili educativi; chi accetta il rischio di un processo transitorio che, nella maggior parte dei casi, conduce ad una delusione delle aspettative iniziali e a situazioni di disagio e disadattamento. E’ migrante chi è costretto ad affrontare la sfida del continuo riconoscimento del proprio “Sé” in contesti sociali e culturali completamente diversi. Migrante è anche Karim, un giovane marocchino di 26 anni, sbarcato a Lampedusa il 29 giugno del 2005. Karim vive a Palermo, lavora come elettricista, parla dodici lingue, frequenta un corso serale d’italiano, dipinge e scrive poesie. Ha voluto raccontare la sua storia di vita per lanciare un messaggio, tramite Punta Sottile, alla nostra isola e per rinnovare quel legame speciale che unisce ogni migrante alla terra d’approdo. Karim ha risposto alle mie domande parlando esclusivamente in italiano, nonostante la complessità della nostra lingua e le difficoltà che incontrano gli immigrati arabi nell’apprendimento di una lingua europea. Considerando la lunga durata dell’intervista, l’impegno, la fatica nell’esposizione orale e, soprattutto il rispetto che ha avuto nei confronti della nostra cultura, ho preferito lasciare la trascrizione dell’intervista nella sua forma originale, senza sottoporre il testo a correzioni o alterazioni, nell’intento anche di cogliere la spontaneità di pensieri e stati d’animo.
Chi era Karim prima di diventare un “immigrato irregolare”?
Karim è il mio vero nome, il cognome tu lo sai pure ma non posso metterlo sul giornale. Ero Karim in Marocco e sono Karim in Italia. Ho dato solo il cognome falso quando mi hanno trovato e ho detto che ero dell’Iraq e non del mio paese. Ho 26 anni, sono nato a Mohammedia in Marocco. La mia famiglia, che non vedo da tre anni, è numerosa. Ci sono i miei genitori, quattro sorelle e un fratello. Io sono il secondo di sei figli. Ho frequentato una scuola d’arte ma ho fatto solo due anni perché per proseguire ci volevano tanti soldi e non li avevo. Nel tempo libero mi piaceva imparare le lingue. Conosco 12 lingue. Oltre il francese, l’inglese, l’italiano, l’arabo, anche le lingue e i dialetti di molti paesi arabi e…il siciliano. La mia storia è diversa da quella degli altri perché chi viene dal Marocco non fugge per fame o per guerra ma lo fa per cambiare il modo di vivere, per cambiare cultura e stare meglio economicamente. Io, a dirti la verità, mi arrangiavo a lavorare, facevo l’elettricista ma nel mio paese non puoi realizzare i sogni, non puoi fare quello che vuoi perché lavori per un prezzo ma la vita costa in maniera diversa e alla fine lavori solo per mangiare e basta.
Com’è maturata la decisione di fuggire dalla tua terra? C’è stata un’occasione particolare? Qualcuno ti ha convinto? Raccontaci.
Un giorno è venuto un mio amico e mi ha detto che c’era uno che faceva lavori per portare la gente in Italia. Quest’uomo del Marocco aveva un altro amico in Libia che poteva fare qualcosa per organizzate il viaggio. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo incontrato questa persona che mi ha detto subito che dovevo dargli tremila euro: mille euro a lui e duemila euro a quello che era in Libia. Per me tremila euro erano una cosa troppo grande. Io ho lavorato assai, tutta la vita, per trovare quei soldi: tutti i miei soldi, di mia madre, di mio padre, della mia famiglia. La mia famiglia era d’accordo ma solo perché a me quegli uomini avevano detto che il viaggio lo facevo con una nave e non con una piccola barca. Se sapevo che c’era quella barca non ci andavo in Libia. Comunque un venerdì mattina sono partito per la Libia. Abbiamo chiamato l’uomo del viaggio e ci ha detto di uscire perché ci aspettava fuori una macchina. Io ho anche pagato 120 euro per farmi riportare il mio passaporto in Marocco perché non lo potevo portare con me nel viaggio per l’Italia ma mi serviva per arrivare in Libia. Gli uomini che avevano organizzato il viaggio si dovevano interessare a riportarlo alla mia famiglia. Mi hanno portato in una casa dove c’erano tanti altri uomini che volevano fare il viaggio da clandestini. Per arrivare in quella casa a me e al mio amico ci hanno messo dentro il cofano della macchina perché non dovevamo vedere la strada. Lì non hai altra scelta. O fai così o perdi tutte cose..Nella casa mentre parlavamo è arrivata la polizia e ha cominciato a sparare addosso alle persone. Noi siamo scappati; poi i libici ci hanno fatto salire nelle loro macchine e ci hanno portato in un altro rifugio.
Quando hai conosciuto lo “scafista”, cioè l’uomo che avrebbe guidato la barca? Che promesse ti ha fatto e che indicazioni ti ha dato, a proposito del viaggio?
Nella casa, in quei giorni, è venuto un ragazzo egiziano che era quello che doveva guidare la barca e ha iniziato a parlare con noi. Ci ha detto che ognuno di noi doveva prendere due bottiglie d’acqua e le cose da mangiare. Ci ha detto: “Noi massimo 24 ore siamo a Lampedusa”. Ci ha anche detto che Lampedusa era la Sicilia, che noi dovevamo arrivare in Sicilia e non in una piccola isola. Poi ci ha raccomandato di dire nome falso e anche l’età, il cognome, la nazionalità, se qualcuno ci prendeva. E’ io, infatti, ho fatto così.
Quanti eravate sulla barca e di che nazionalità erano i tuoi compagni di viaggio?
Eravamo 152, marocchini, tunisini, del Bangladesh, del Sudan, egiziani, algerini e due filippini. Tanti giovani ma c’erano anche uomini di 45-50 anni. Non c’erano donne e bambini quella volta. Eravamo spaventati perché prima del nostro viaggio un barcone si era perso in mare ed erano morti tutti.
Raccontaci del tuo viaggio dalla Libia a Lampedusa.
Dopo quattro giorni chiusi in quelle case in Libia, siamo partiti il 23 giugno 2005, di notte, e siamo arrivati a Lampedusa il 29 giugno, dopo 6 giorni di navigazione. Prima di partire ci hanno detto di uscire dalla casa ad uno ad uno, con i sacchetti del cibo e dell’acqua in mano, ma la barca era molto lontana e io ho nuotato per tanti, tanti metri prima di arrivarci. Con me c’era pure un uomo che non vedeva bene ed è stato molto male. All’inizio, sulla barca, abbiamo parlato di chi aveva moglie o figli, di chi aveva lasciato qualcuno da qualche parte. Il secondo giorno di viaggio già è finito il mangiare e pure l’acqua. Si moriva di fame e di sete. Alcuni bevevano l’acqua del mare ma poi avevano ancora più sete. C’erano ragazzi che erano buttati in un angolo e non si potevamo muovere perché per la fame erano stati male, non avevano forza nemmeno di muovere le mani. Di notte si dormiva solo due o tre ore per paura che succedesse qualcosa. Mi ricordo una cosa. Dopo il secondo giorno, quando tutti stavano male, io rimanevo a guardare il mare e il cielo. A me piace molto l’arte e per non stare male passavo il tempo a guardare le cose belle della natura. Verso le sei del mattino, ho svegliato un amico che dormiva accanto a me e gli ho detto:”Guarda che bella immagine!”. Lui mi ha detto:”Ma come, noi stiamo morendo e tu pensi a guardare la bella immagine del mare e del cielo?”. Davanti a certe cose la paura si toglie perché io penso che ho solo due scelte: o muoio o arrivo a destinazione. Non hai altre scelte. Non puoi fare altro su quella barca. Davanti hai solo mare e cielo.
C’è stato un momento particolare in cui hai avuto paura di non arrivare a destinazione?
Sì, l’ultimo giorno, prima di arrivare a Lampedusa lo scafista ha perso la rotta per giungere in Italia. Lui non sapeva dove andava. Eravamo affamati e assetati. Abbiamo iniziato a capire che c’era veramente il rischio di morire in mare. Poi di mattina abbiamo visto un aereo che volava sopra di noi, forse per fare le fotografie alla barca. La metà di noi era felice perché, anche se ci prendevano, eravamo salvi. Poi è arrivata la Guardia Costiera. Hanno chiesto se qualcuno parlava in francese e ho risposto alle loro domande. Tanto ormai ci avevano trovato e dovevi rispondere. Mi hanno detto di dire a quelli che erano sulla barca di stare calmi e che dovevano solo portarci in un posto tranquillo e darci da mangiare, da bere e curare chi stava male. Intanto, quello che guidava la barca ha buttato il telefono e tutte le sue cose in mare e si è messo insieme a noi. Ci hanno chiesto chi era quello che guidava ma noi non abbiamo risposto. La Guardia Costiera ci ha trattato bene, io ricordo tutto, anche la loro faccia. Prima hanno curato quello che stava morendo di fame e di sete perché aveva bevuto troppa acqua di mare. Poi mi hanno dato cibo e acqua e io li ho divisi ai miei compagni. La barca l’hanno portata via con una corda e noi siamo andati con loro. Siamo arrivati a Lampedusa dopo circa 5 ore. Ci hanno fatto salire su un pulmino e ci hanno portato al centro di accoglienza.
Che ricordi hai della tua permanenza al Centro di Accoglienza di Lampedusa?
Siamo stati trattati bene, ci hanno dato cibo, acqua, sapone, shampoo, anche se il nostro pensiero era quello di scappare perché non sapevamo dove eravamo andati a finire; non pensavamo a dormire perché ne arrivavano tanti e non c’era posto per tutti. Noi non sapevamo che Lampedusa era un’isola così piccola e non potevi scappare. In questi giorni sono scappati due ragazzi marocchini ma l’indomani sono tornati soli perché non avevano dove andare. Al centro hanno anche rispettato la nostra religione perché noi musulmani preghiamo cinque volte al giorno. Ci hanno permesso di pregare tutti insieme in una zona libera del centro, una specie di spiazzale. Il giorno dopo ci hanno preso le impronte digitali. Ricordo che c’era anche una ragazza marocchina che lavorava al centro e comunicava con noi. Il terzo giorno hanno chiamato ventisei persone marocchine e ci hanno fatto partire in nave. Ognuno di noi aveva un panino e una bottiglia d’acqua. Siamo rimasti con un carabiniere che ci controllava. Però, cara amica, io ho anche un brutto ricordo del Centro. Ora ti spiego. Io avevo un bel regalo che mi aveva lasciato la mia ragazza marocchina: era una collana con la scritta “Allah”, che significa “In nome di Dio”; era di buon augurio per il mio viaggio. Me lo aveva dato il giorno prima che lasciassi il Marocco. Non so dove l’hanno portato. So solo che me l’hanno tolta e non me l’hanno più data. Io per questo sono arrabbiato, è l’unica cosa che mi ha fatto arrabbiare, era l’unica cosa che avevo con me, l’unico ricordo del mio paese, dei miei affetti e non è stato giusto togliere i ricordi alle persone.
Karim, in genere gli immigrati sperimentano forme identitarie così conflittuali da percepirsi come “identità sospese” tra due mondi: da una parte il desiderio di mantenere le caratteristiche culturali del proprio paese d’origine, dall’altra il bisogno di adeguarsi ai modelli sociali del paese ospitante. Quali sono i principali problemi che hanno ostacolato il tuo processo di integrazione nella nuova città?
Ti dico solo che i primi cinque giorni ho dormito fuori. Poi qualcuno mi ha fatto il favore di ospitarmi. Ho iniziato a cercare i marocchini che stavano a Palermo, per trovare un lavoro e un posto per dormire e solo loro mi hanno aiutato. Ho fatto tanti lavori, tutti onesti e mai cose illegali. Ora faccio il mio mestiere, l’elettricista, e prendo 600 euro al mese. Ho una casa e pago 250 euro di affitto. Il primo anno ho frequentato solo arabi e non parlavo italiano ma la lingua era un problema. Così ho deciso di iscrivermi ad un corso di italiano e continuo a frequentarlo. Lavoro e studio. A me non interessa quello che rimane a me del mio stipendio. Io mando anche i soldi in Marocco alla mia famiglia. Io sono felice quando mia madre mi dice che sta bene. Mi interessa solo questo.
Karim, cosa provi quando in TV osservi le immagini dei continui sbarchi a Lampedusa? Cosa pensi di tutti quegli uomini che hanno fatto e continuano a fare la tua stessa scelta di vita?
Quando in Tv guardo gli sbarchi penso che ancora ci sono centinaia di persone che stanno sbagliando. Questo è un errore non per noi ma perché qualcuno gioca con la nostra vita Ci prendono in giro, ci dicono che il viaggio serve per migliorare la nostra vita e invece quel viaggio la vita la fa rischiare. Ci dicono che si parte con le navi e non una piccola barca. La vita ha un valore e non si deve rischiare così. Tu rischi la vita per un futuro migliore ma se non arrivi alla fine di quel viaggio nemmeno la via peggiore puoi vivere. E’ vero pure che c’è gente che muore per la fame e per la guerra e vuole partire a tutti i costi perché è disperata ma non si può partire così. Devono essere informati su quello a cui vanno incontro. Ci vogliono, per esempio, volontari che spiegano, informano, cosa si potrebbe fare per arrivare nelle altre terre con aerei e navi ma per vie legali e non illegali. Io ho pagato 3000 euro per cambiare la mia vita ma non per buttarla via. Non è come quando sali su un aereo e tu puoi avere la disgrazia che l’aereo cade. Con una barca di quelle tu sei in mare e c’è solo mare, c’è sempre il rischio di morire.
Karim, per te è più difficile pensare al passato o al futuro?
A dirti la verità io al futuro non ci penso mai. Penso al presente, se mangio oggi e cosa posso fare oggi per mangiare domani. Al passato poi non ci voglio assolutamente pensare perché mi fa male. Io non ho dimenticato il mio passato, l’ho posato da una parte perché se lo riprendo io soffro. Non voglio soffrire ogni giorno. Non si tratta solo di una terra, di una cosa, si tratta di persone che non vedrai più a vita. E’ un dolore troppo grande da sopportare. Io non vedo la mia famiglia da tre anni. Io soffro ma non piango. Quando penso al mio passato o dipingo o scrivo per non piangere.
Cosa ti manca di più quando ripensi alla tua vita in Marocco?
Mi manca mia madre, anche mio padre e i fratelli ma la mamma è un’altra cosa. La chiamo ogni domenica. Con la mia famiglia ci sentiamo per telefono o via internet ma non ti basta mai.
In Marocco hai lasciato i tuoi affetti, le persone che hai amato e che non rivedrai mai più. Come vuoi essere ricordato dalla tua famiglia?
Io ho sofferto tanto perché ho sentito la mancanza di una madre che ho conosciuto solo da grande. Vorrei essere ricordato come quel bambino che è stato nel grembo di sua madre, che è cresciuto con sua madre e che non si è mai separato da lei.
Karim, in questo periodo si parla tanto di crimini violenti commessi da stranieri, in particolare albanesi e rumeni. Cosa provi quando gli immigrati vengono etichettati solo come “delinquenti”?
La brutta gente esiste in tutto il mondo. Dove c’è bene c’è il male. In tutto il mondo ci sono le persone brave e ci sono quelle che non sono brave, in Marocco, in America o in Italia. Io quando guardo il telegiornale italiano vedo che pure gli italiani uccidono i bambini, anche gli italiani uccidono le mogli. La cosa brutta non è la nazionalità di chi ha ucciso ma il fatto stesso che chi uccide non ha umanità, non ha i valori di vita, non ha rispetto degli altri. Non si deve cercare la differenza della nazionalità ma si deve prendere chi ha sbagliato e capire perché ha sbagliato. Chi sbaglia deve pagare. Non dobbiamo metterlo un anno in galera e poi farlo uscire subito perché quando esce fa altro male. Quando uno paga l’errore poi non lo commette più perché si ha paura di essere punito di nuovo, ma se non viene punito il colpevole continuerà a fare male.
Karim, hai scritto molte poesie ma so che la tua poesia preferita è proprio quella dedicata a Lampedusa e al tuo viaggio in mare…
Sì, io non posso mai tornare a Lampedusa e in un nessun altro posto perché non ho documenti ma io ho Lampedusa nel cuore, sempre. Il titolo che ho dato a questa poesia è “Ricordami” perché so che Lampedusa non può ricordare tutti quelli che sbarcano invece ognuno di noi la ricorda sempre. Io ti dono questa poesia per portarla nella tua terra e dirle: “Ricordati di Karim”.
Grazie Karim, Lampedusa si ricorderà sicuramente di te perché, come direbbe il grande Maestro Claudio Baglioni, “Nessun uomo è un’isola e ogni respiro è un uomo”.
Ricordami(dedicata a Lampedusa)
Ricordami,
sei stata la mia seconda terra
dopo tutta la fatica
dopo il lungo viaggio.
Rimani sempre nel mio pensiero,
tu sei stata la mia finestra
per vedere il futuro.
Per te, io sono rimasto solo,
senza famiglia.
Io mi addoloro ogni giorno.
Sopporto la sofferenza
Per il tuo amore.
Aspetto ogni tramonto del sole
Per rivederti di nuovo.
Ricordami e arrivederci
al giorno in cui tu vorrai.
Forse il sole tramonterà
e sorgerà di nuovo più volte
ed io continuerò ad amarti
o forse tramonterà senza più risorgere
ma lo stesso farò uscire dal mio cuore
tutto il amore per te.
(scritta da Karim, giovane marocchino sbarcato a Lampedusa il 29/6/2005, tradotta dall’arabo all’italiano dallo stesso autore)
Fonte: Punta sottile e Nostalgia, rivista elettronica di Asma Gherib
Chi era Karim prima di diventare un “immigrato irregolare”?
Karim è il mio vero nome, il cognome tu lo sai pure ma non posso metterlo sul giornale. Ero Karim in Marocco e sono Karim in Italia. Ho dato solo il cognome falso quando mi hanno trovato e ho detto che ero dell’Iraq e non del mio paese. Ho 26 anni, sono nato a Mohammedia in Marocco. La mia famiglia, che non vedo da tre anni, è numerosa. Ci sono i miei genitori, quattro sorelle e un fratello. Io sono il secondo di sei figli. Ho frequentato una scuola d’arte ma ho fatto solo due anni perché per proseguire ci volevano tanti soldi e non li avevo. Nel tempo libero mi piaceva imparare le lingue. Conosco 12 lingue. Oltre il francese, l’inglese, l’italiano, l’arabo, anche le lingue e i dialetti di molti paesi arabi e…il siciliano. La mia storia è diversa da quella degli altri perché chi viene dal Marocco non fugge per fame o per guerra ma lo fa per cambiare il modo di vivere, per cambiare cultura e stare meglio economicamente. Io, a dirti la verità, mi arrangiavo a lavorare, facevo l’elettricista ma nel mio paese non puoi realizzare i sogni, non puoi fare quello che vuoi perché lavori per un prezzo ma la vita costa in maniera diversa e alla fine lavori solo per mangiare e basta.
Com’è maturata la decisione di fuggire dalla tua terra? C’è stata un’occasione particolare? Qualcuno ti ha convinto? Raccontaci.
Un giorno è venuto un mio amico e mi ha detto che c’era uno che faceva lavori per portare la gente in Italia. Quest’uomo del Marocco aveva un altro amico in Libia che poteva fare qualcosa per organizzate il viaggio. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo incontrato questa persona che mi ha detto subito che dovevo dargli tremila euro: mille euro a lui e duemila euro a quello che era in Libia. Per me tremila euro erano una cosa troppo grande. Io ho lavorato assai, tutta la vita, per trovare quei soldi: tutti i miei soldi, di mia madre, di mio padre, della mia famiglia. La mia famiglia era d’accordo ma solo perché a me quegli uomini avevano detto che il viaggio lo facevo con una nave e non con una piccola barca. Se sapevo che c’era quella barca non ci andavo in Libia. Comunque un venerdì mattina sono partito per la Libia. Abbiamo chiamato l’uomo del viaggio e ci ha detto di uscire perché ci aspettava fuori una macchina. Io ho anche pagato 120 euro per farmi riportare il mio passaporto in Marocco perché non lo potevo portare con me nel viaggio per l’Italia ma mi serviva per arrivare in Libia. Gli uomini che avevano organizzato il viaggio si dovevano interessare a riportarlo alla mia famiglia. Mi hanno portato in una casa dove c’erano tanti altri uomini che volevano fare il viaggio da clandestini. Per arrivare in quella casa a me e al mio amico ci hanno messo dentro il cofano della macchina perché non dovevamo vedere la strada. Lì non hai altra scelta. O fai così o perdi tutte cose..Nella casa mentre parlavamo è arrivata la polizia e ha cominciato a sparare addosso alle persone. Noi siamo scappati; poi i libici ci hanno fatto salire nelle loro macchine e ci hanno portato in un altro rifugio.
Quando hai conosciuto lo “scafista”, cioè l’uomo che avrebbe guidato la barca? Che promesse ti ha fatto e che indicazioni ti ha dato, a proposito del viaggio?
Nella casa, in quei giorni, è venuto un ragazzo egiziano che era quello che doveva guidare la barca e ha iniziato a parlare con noi. Ci ha detto che ognuno di noi doveva prendere due bottiglie d’acqua e le cose da mangiare. Ci ha detto: “Noi massimo 24 ore siamo a Lampedusa”. Ci ha anche detto che Lampedusa era la Sicilia, che noi dovevamo arrivare in Sicilia e non in una piccola isola. Poi ci ha raccomandato di dire nome falso e anche l’età, il cognome, la nazionalità, se qualcuno ci prendeva. E’ io, infatti, ho fatto così.
Quanti eravate sulla barca e di che nazionalità erano i tuoi compagni di viaggio?
Eravamo 152, marocchini, tunisini, del Bangladesh, del Sudan, egiziani, algerini e due filippini. Tanti giovani ma c’erano anche uomini di 45-50 anni. Non c’erano donne e bambini quella volta. Eravamo spaventati perché prima del nostro viaggio un barcone si era perso in mare ed erano morti tutti.
Raccontaci del tuo viaggio dalla Libia a Lampedusa.
Dopo quattro giorni chiusi in quelle case in Libia, siamo partiti il 23 giugno 2005, di notte, e siamo arrivati a Lampedusa il 29 giugno, dopo 6 giorni di navigazione. Prima di partire ci hanno detto di uscire dalla casa ad uno ad uno, con i sacchetti del cibo e dell’acqua in mano, ma la barca era molto lontana e io ho nuotato per tanti, tanti metri prima di arrivarci. Con me c’era pure un uomo che non vedeva bene ed è stato molto male. All’inizio, sulla barca, abbiamo parlato di chi aveva moglie o figli, di chi aveva lasciato qualcuno da qualche parte. Il secondo giorno di viaggio già è finito il mangiare e pure l’acqua. Si moriva di fame e di sete. Alcuni bevevano l’acqua del mare ma poi avevano ancora più sete. C’erano ragazzi che erano buttati in un angolo e non si potevamo muovere perché per la fame erano stati male, non avevano forza nemmeno di muovere le mani. Di notte si dormiva solo due o tre ore per paura che succedesse qualcosa. Mi ricordo una cosa. Dopo il secondo giorno, quando tutti stavano male, io rimanevo a guardare il mare e il cielo. A me piace molto l’arte e per non stare male passavo il tempo a guardare le cose belle della natura. Verso le sei del mattino, ho svegliato un amico che dormiva accanto a me e gli ho detto:”Guarda che bella immagine!”. Lui mi ha detto:”Ma come, noi stiamo morendo e tu pensi a guardare la bella immagine del mare e del cielo?”. Davanti a certe cose la paura si toglie perché io penso che ho solo due scelte: o muoio o arrivo a destinazione. Non hai altre scelte. Non puoi fare altro su quella barca. Davanti hai solo mare e cielo.
C’è stato un momento particolare in cui hai avuto paura di non arrivare a destinazione?
Sì, l’ultimo giorno, prima di arrivare a Lampedusa lo scafista ha perso la rotta per giungere in Italia. Lui non sapeva dove andava. Eravamo affamati e assetati. Abbiamo iniziato a capire che c’era veramente il rischio di morire in mare. Poi di mattina abbiamo visto un aereo che volava sopra di noi, forse per fare le fotografie alla barca. La metà di noi era felice perché, anche se ci prendevano, eravamo salvi. Poi è arrivata la Guardia Costiera. Hanno chiesto se qualcuno parlava in francese e ho risposto alle loro domande. Tanto ormai ci avevano trovato e dovevi rispondere. Mi hanno detto di dire a quelli che erano sulla barca di stare calmi e che dovevano solo portarci in un posto tranquillo e darci da mangiare, da bere e curare chi stava male. Intanto, quello che guidava la barca ha buttato il telefono e tutte le sue cose in mare e si è messo insieme a noi. Ci hanno chiesto chi era quello che guidava ma noi non abbiamo risposto. La Guardia Costiera ci ha trattato bene, io ricordo tutto, anche la loro faccia. Prima hanno curato quello che stava morendo di fame e di sete perché aveva bevuto troppa acqua di mare. Poi mi hanno dato cibo e acqua e io li ho divisi ai miei compagni. La barca l’hanno portata via con una corda e noi siamo andati con loro. Siamo arrivati a Lampedusa dopo circa 5 ore. Ci hanno fatto salire su un pulmino e ci hanno portato al centro di accoglienza.
Che ricordi hai della tua permanenza al Centro di Accoglienza di Lampedusa?
Siamo stati trattati bene, ci hanno dato cibo, acqua, sapone, shampoo, anche se il nostro pensiero era quello di scappare perché non sapevamo dove eravamo andati a finire; non pensavamo a dormire perché ne arrivavano tanti e non c’era posto per tutti. Noi non sapevamo che Lampedusa era un’isola così piccola e non potevi scappare. In questi giorni sono scappati due ragazzi marocchini ma l’indomani sono tornati soli perché non avevano dove andare. Al centro hanno anche rispettato la nostra religione perché noi musulmani preghiamo cinque volte al giorno. Ci hanno permesso di pregare tutti insieme in una zona libera del centro, una specie di spiazzale. Il giorno dopo ci hanno preso le impronte digitali. Ricordo che c’era anche una ragazza marocchina che lavorava al centro e comunicava con noi. Il terzo giorno hanno chiamato ventisei persone marocchine e ci hanno fatto partire in nave. Ognuno di noi aveva un panino e una bottiglia d’acqua. Siamo rimasti con un carabiniere che ci controllava. Però, cara amica, io ho anche un brutto ricordo del Centro. Ora ti spiego. Io avevo un bel regalo che mi aveva lasciato la mia ragazza marocchina: era una collana con la scritta “Allah”, che significa “In nome di Dio”; era di buon augurio per il mio viaggio. Me lo aveva dato il giorno prima che lasciassi il Marocco. Non so dove l’hanno portato. So solo che me l’hanno tolta e non me l’hanno più data. Io per questo sono arrabbiato, è l’unica cosa che mi ha fatto arrabbiare, era l’unica cosa che avevo con me, l’unico ricordo del mio paese, dei miei affetti e non è stato giusto togliere i ricordi alle persone.
Karim, in genere gli immigrati sperimentano forme identitarie così conflittuali da percepirsi come “identità sospese” tra due mondi: da una parte il desiderio di mantenere le caratteristiche culturali del proprio paese d’origine, dall’altra il bisogno di adeguarsi ai modelli sociali del paese ospitante. Quali sono i principali problemi che hanno ostacolato il tuo processo di integrazione nella nuova città?
Ti dico solo che i primi cinque giorni ho dormito fuori. Poi qualcuno mi ha fatto il favore di ospitarmi. Ho iniziato a cercare i marocchini che stavano a Palermo, per trovare un lavoro e un posto per dormire e solo loro mi hanno aiutato. Ho fatto tanti lavori, tutti onesti e mai cose illegali. Ora faccio il mio mestiere, l’elettricista, e prendo 600 euro al mese. Ho una casa e pago 250 euro di affitto. Il primo anno ho frequentato solo arabi e non parlavo italiano ma la lingua era un problema. Così ho deciso di iscrivermi ad un corso di italiano e continuo a frequentarlo. Lavoro e studio. A me non interessa quello che rimane a me del mio stipendio. Io mando anche i soldi in Marocco alla mia famiglia. Io sono felice quando mia madre mi dice che sta bene. Mi interessa solo questo.
Karim, cosa provi quando in TV osservi le immagini dei continui sbarchi a Lampedusa? Cosa pensi di tutti quegli uomini che hanno fatto e continuano a fare la tua stessa scelta di vita?
Quando in Tv guardo gli sbarchi penso che ancora ci sono centinaia di persone che stanno sbagliando. Questo è un errore non per noi ma perché qualcuno gioca con la nostra vita Ci prendono in giro, ci dicono che il viaggio serve per migliorare la nostra vita e invece quel viaggio la vita la fa rischiare. Ci dicono che si parte con le navi e non una piccola barca. La vita ha un valore e non si deve rischiare così. Tu rischi la vita per un futuro migliore ma se non arrivi alla fine di quel viaggio nemmeno la via peggiore puoi vivere. E’ vero pure che c’è gente che muore per la fame e per la guerra e vuole partire a tutti i costi perché è disperata ma non si può partire così. Devono essere informati su quello a cui vanno incontro. Ci vogliono, per esempio, volontari che spiegano, informano, cosa si potrebbe fare per arrivare nelle altre terre con aerei e navi ma per vie legali e non illegali. Io ho pagato 3000 euro per cambiare la mia vita ma non per buttarla via. Non è come quando sali su un aereo e tu puoi avere la disgrazia che l’aereo cade. Con una barca di quelle tu sei in mare e c’è solo mare, c’è sempre il rischio di morire.
Karim, per te è più difficile pensare al passato o al futuro?
A dirti la verità io al futuro non ci penso mai. Penso al presente, se mangio oggi e cosa posso fare oggi per mangiare domani. Al passato poi non ci voglio assolutamente pensare perché mi fa male. Io non ho dimenticato il mio passato, l’ho posato da una parte perché se lo riprendo io soffro. Non voglio soffrire ogni giorno. Non si tratta solo di una terra, di una cosa, si tratta di persone che non vedrai più a vita. E’ un dolore troppo grande da sopportare. Io non vedo la mia famiglia da tre anni. Io soffro ma non piango. Quando penso al mio passato o dipingo o scrivo per non piangere.
Cosa ti manca di più quando ripensi alla tua vita in Marocco?
Mi manca mia madre, anche mio padre e i fratelli ma la mamma è un’altra cosa. La chiamo ogni domenica. Con la mia famiglia ci sentiamo per telefono o via internet ma non ti basta mai.
In Marocco hai lasciato i tuoi affetti, le persone che hai amato e che non rivedrai mai più. Come vuoi essere ricordato dalla tua famiglia?
Io ho sofferto tanto perché ho sentito la mancanza di una madre che ho conosciuto solo da grande. Vorrei essere ricordato come quel bambino che è stato nel grembo di sua madre, che è cresciuto con sua madre e che non si è mai separato da lei.
Karim, in questo periodo si parla tanto di crimini violenti commessi da stranieri, in particolare albanesi e rumeni. Cosa provi quando gli immigrati vengono etichettati solo come “delinquenti”?
La brutta gente esiste in tutto il mondo. Dove c’è bene c’è il male. In tutto il mondo ci sono le persone brave e ci sono quelle che non sono brave, in Marocco, in America o in Italia. Io quando guardo il telegiornale italiano vedo che pure gli italiani uccidono i bambini, anche gli italiani uccidono le mogli. La cosa brutta non è la nazionalità di chi ha ucciso ma il fatto stesso che chi uccide non ha umanità, non ha i valori di vita, non ha rispetto degli altri. Non si deve cercare la differenza della nazionalità ma si deve prendere chi ha sbagliato e capire perché ha sbagliato. Chi sbaglia deve pagare. Non dobbiamo metterlo un anno in galera e poi farlo uscire subito perché quando esce fa altro male. Quando uno paga l’errore poi non lo commette più perché si ha paura di essere punito di nuovo, ma se non viene punito il colpevole continuerà a fare male.
Karim, hai scritto molte poesie ma so che la tua poesia preferita è proprio quella dedicata a Lampedusa e al tuo viaggio in mare…
Sì, io non posso mai tornare a Lampedusa e in un nessun altro posto perché non ho documenti ma io ho Lampedusa nel cuore, sempre. Il titolo che ho dato a questa poesia è “Ricordami” perché so che Lampedusa non può ricordare tutti quelli che sbarcano invece ognuno di noi la ricorda sempre. Io ti dono questa poesia per portarla nella tua terra e dirle: “Ricordati di Karim”.
Grazie Karim, Lampedusa si ricorderà sicuramente di te perché, come direbbe il grande Maestro Claudio Baglioni, “Nessun uomo è un’isola e ogni respiro è un uomo”.
Ricordami(dedicata a Lampedusa)
Ricordami,
sei stata la mia seconda terra
dopo tutta la fatica
dopo il lungo viaggio.
Rimani sempre nel mio pensiero,
tu sei stata la mia finestra
per vedere il futuro.
Per te, io sono rimasto solo,
senza famiglia.
Io mi addoloro ogni giorno.
Sopporto la sofferenza
Per il tuo amore.
Aspetto ogni tramonto del sole
Per rivederti di nuovo.
Ricordami e arrivederci
al giorno in cui tu vorrai.
Forse il sole tramonterà
e sorgerà di nuovo più volte
ed io continuerò ad amarti
o forse tramonterà senza più risorgere
ma lo stesso farò uscire dal mio cuore
tutto il amore per te.
(scritta da Karim, giovane marocchino sbarcato a Lampedusa il 29/6/2005, tradotta dall’arabo all’italiano dallo stesso autore)
Fonte: Punta sottile e Nostalgia, rivista elettronica di Asma Gherib